Oggi abbiamo il piacere di intervistare Emilio Urbani, autore del libro “Nonno Bruno e la grande guerra”. Attraverso una toccante narrazione che fonde romanzo e documentario, Emilio ci guida nei momenti più drammatici della Prima Guerra Mondiale, raccontando le vicende del sottotenente Bruno Urbani, eroe silenzioso di un conflitto che ha segnato profondamente la storia d’Italia. Con emozione e rigore storico, l’autore ci fa rivivere il coraggio, le paure e i sacrifici di chi, come “nonno Bruno”, ha combattuto al fronte. Oggi scopriremo cosa ha spinto Emilio Urbani a riportare alla luce questa storia familiare e collettiva.
Cosa ti ha spinto a scrivere un libro sulla vita di tuo padre durante la Grande Guerra?
Da molto tempo avevo intenzione di scrivere delle memorie di guerra di mio padre perché mi sembrava fosse dovere di un figlio raccogliere i ricordi di un avvenimento epocale, come la Grande Guerra, combattuta dal proprio genitore. Si trattava, in particolare nel mio caso, di riportare immagini e sensazioni di una vicenda vissuta in prima persona da un familiare che era stato un padre affettuoso e sempre presente. Purtroppo, come accade spesso nella vita, le buone intenzioni non si concretizzano subito, avevo però la sensazione che prima o poi sarebbe capitata l’occasione di poter realizzare questo desiderio. C’erano state alcune domande dei miei nipoti e quelli dei miei fratelli, che chiedevano notizie sulla vita di nonno Bruno, che in realtà è il loro bisnonno; la vera occasione, però, di affrontare nuovamente l’argomento si è verificata con l’arrivo del covid. Questa grave epidemia ha costretto milioni di persone in tutto il modo a rinchiudersi nelle proprie case creando notevoli problemi, anche di natura psicologica, in particolare agli adolescenti e agli anziani. Ogni persona ha provato a reagire secondo le proprie capacità ed attitudini, nei limiti delle situazioni contingenti. Molti hanno ripreso attività che per loro rivestivano particolare interesse e che non potevano coltivare nella vita normale. Io, come molti altri, mi sono messo a scrivere su argomenti che avevo in mente da tempo. E così ha preso forma Nonno Bruno e la Grande Guerra il che è avvenuto anche in relazione ad una serie di particolari coincidenze che si sono verificate in quel periodo e che hanno aumentato il mio interesse per la Prima guerra mondiale. Sono un appassionato lettore e, tra gli scrittori che preferisco, c’è Ken Follett, noto romanziere inglese. Proprio nei mesi nei quali stavo preparando la prima bozza del mio manoscritto su nonno Bruno, ho iniziato a leggere un libro di quell’autore dal titolo “Per niente al mondo”.’ Una storia immaginaria, ma che ha inizio dall’esame di fatti concreti come piccole guerre e scaramucce tra stati che, a seguito di ritorsioni e rappresaglie, fanno scoppiare una guerra nucleare. Nella prefazione del libro, l’autore pone in evidenza una situazione analoga, storicamente verificatasi, quale l’inizio della Prima guerra mondiale, che, secondo gli storici, non è stata causata da un grave rilevante avvenimento, ma da piccoli contrasti facilmente superabili, non in grado di determinare singolarmente quel catastrofico evento. È ovvio che queste considerazioni hanno attirato la mia attenzione mentre stavo studiando la Prima guerra mondiale. C’è stata poi un’altra importante coincidenza. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Dopo un lungo periodo di pace, l’Europa vede ora soldati in armi marciare sul suo territorio mentre si era sperato di confinare la parola “guerra” nei libri di storia. Questo evento mi ha profondamente colpito perché la situazione che ha preceduto la guerra 1914-1918 ha qualche analogia con la situazione attuale. Un piccolo fuoco ne sta accendendo altri. Il bambino ha preso la scatola di fiammiferi e ne sta sfregando uno su un lato di essa. È vero, nessuno vuole la guerra come allora, ma analisti ed esperti in materia di conflitti e guerre moderne, non escludono la possibilità di un incidente casuale in grado di scatenare un conflitto atomico, specialmente in periodi di tensione come quello che stiamo vivendo. La catastrofe è stata sfiorata alla fine del secolo scorso e l’umanità è stata salvata da un colonnello russo che ha capito, in tempo utile, che si era verificato un malfunzionamento dei computers dagli schermi dei quali apparivano false immagini che mostravano la violazione dello spazio aereo russo da parte di missili americani. Non sempre si può confidare nei miracoli. Accingendomi a scrivere sul primo conflitto mondiale ero consapevole che avrei dovuto affrontare l’argomento guerra, ma mai avrei immaginato di trovarmi in un periodo come quello che stiamo attraversando. Riprenderò questo tema tra poco se mi verranno presentate altre domande. Tornando al quesito sul perché ho iniziato scrivere (non in giovane età aggiungo io), devo dire che anche qui ha influito il caso. Tempo fa, nel leggere un periodico che presenta libri e scrittori, mi sono imbattuto in una storia che mi ha interessato. L’autore dell’articolo stava scrivendo su coloro che hanno pubblicato libri in tarda età ed in proposito ha citato Harry Bernstein, scrittore americano di origine ebrea. Un giorno questo autore, che era stato giornalista e pubblicista, ed aveva 90 anni, si era rivolto ad un amico lamentando di aver scritto molto in vita sua, ma mai una storia o un romanzo che fossero creati da lui stesso. All’amico aveva confidato che aveva una gran voglia di scrivere, ma era perplesso su quale argomento. La risposta fu – scrivi su la tua vita, sei nato in un paese dell’est Europa, sei ebreo, con la famiglia, da piccolo, sei emigrato in Inghilterra e poi, più grande, negli Stati Uniti, ne hai di cose da scrivere…-Bernstein scrisse “Il muro invisibile” che ebbe un grande successo al quale seguirono altri romanzi. È morto all’età di cento anni. La risposta dell’amico e la vita di Bernstein mi hanno aiutato molto nella mia scelta. La storia di mio padre non è la mia storia, ma in fondo i suoi racconti e le sue esperienze sono diventate parte di me. Stranamente, considerato che mio padre è vissuto fino a quando io avevo quaranta anni, devo dire che il periodo nel quale ho rivolto a lui più domande è stato quando ero bambino o adolescente. In seguito, è stato per me più difficile riprendere certi argomenti con lui. È stato un male, perché avrei potuto chiarire più cose del suo passato, ma allora non mi era ancora venuta l’idea di raccontare parte della sua vita.
Il libro è una fusione tra romanzo e documentario: come hai bilanciato questi due generi nella narrazione?
Quando ho iniziato a scrivere mi sono accorto che il materiale a disposizione, costituito dai ricordi di mio padre che avevo conservato nella mia memoria, non poteva essere quantitativamente sufficiente per essere contenuto nel manoscritto che stavo scrivendo. Il testo avrebbe avuto dimensioni ridotte come un racconto lungo ma non come un romanzo. Certamente potevo integrare i fatti narrati riportando i pensieri e le sensazioni che immaginavo avesse avuto mio padre nel vivere quelle vicende, come di regola fa ogni coscienzioso narratore, ma anche questo non sarebbe bastato. La soluzione mi è sembrata ovvia mentre leggevo libri di storia, romanzi e opere di critica e saggistica sull’argomento. Dovevo inquadrare gli avvenimenti dei quali mio padre era stato testimone, nel contesto storico, anche per agevolare il lettore ad orientarsi nella enorme massa di dati che offriva la narrazione del primo conflitto mondiale. Applicare questo metodo non era facile perché inserire avvenimenti storici in un contesto narrativo concernente vicende individuali, poteva appesantire la narrazione o addirittura essere inopportuno. In alcuni casi mi sono affidato alla fantasia come nell’episodio descritto nel libro, quando, durante il viaggio in treno, Bruno vede un giornale abbandonato sul sedile di un vagone. Legge i titoli e apprende che è in corso una grande battaglia a Verdun. Mio padre non mi aveva mai parlato di aver letto un giornale in treno, ma io ho creato questo episodio anche per far capire che a quei tempi la possibilità di conoscere le notizie era più limitata. La radio non esisteva e neanche internet e la televisione, esistevano i giornali e il telefono e gli articoli dei giornalisti e le notizie relative potevano giungere alla redazione anche con plichi che dovevano viaggiare in treno. Con il riferimento a Verdun ho voluto far capire al lettore che il vissuto di Bruno era solo un piccolo episodio rispetto al dramma spaventoso che si stava svolgendo in Europa. La lettura della storia è stata molto importante per me in questo lavoro perché mi ha permesso di conoscere i luoghi. Avevo in mente, ad esempio, la parola Col del Rosso e i particolari dello scontro ai quali aveva partecipato Bruno, ma ho potuto inquadrare questo luogo e conoscere la sua ubicazione nella battaglia dei Tre Monti, solo dopo aver letto della importanza di quel fatto d’armi, la prima vittoria italiana dopo la disfatta di Caporetto. Ho consultato e letto libri di storia come “La grande storia della prima guerra mondiale” dello storico inglese Martin Ghilbert, romanzi come “Addio alle armi” di Ernest Hemingway e libri come “La guerra dei nostri nonni” del giornalista Aldo Cazzullo. Questa ultima tipologia di scritti è stata anch’essa molto importante per me perché leggendoli ho ricostruito l’ambiente dei primi anni del secolo, nel quale ha avuto luogo la Grande Guerra. Ho consultato spesso il libro di Gilbert perché mi sembrava interessante conoscere il parere di uno storico inglese sulla nostra guerra, tenendo conto che gli storici di quel paese sono stati sempre molto contenuti nell’esprimere apprezzamenti sulle nostre virtù militari. Ho quindi inserito con piacere, nella parte finale del mio libro, uno stralcio del romanzo di Hemingway riportato da Gilbert nella sua opera, dove si parla del coraggio e del valore dei soldati italiani. Se un autore cita un altro scrittore inserendo un brano di quest’ultimo nel suo scritto vuol dire che condivide pienamente quanto affermato in quel testo. Devo far presente, infine, che ho avuto particolare cura, nel far riferimento agli eventi storici, di darne notizia in maniera contenuta per non diluire troppo il racconto e non far calare il livello di attenzione sulle vicende del protagonista. Mi piace ricordare inoltre che mi è parso opportuno far cenno al lettore delle figure eroiche di italiani distintisi nella Grande Guerra e delle innovazioni tecnologiche e nuovi strumenti bellici che hanno caratterizzato l’andamento di quel conflitto (i carrarmati, i siluri egli aerei) alcuni dei quali hanno acquistato in seguito notevole importanza anche sotto un profilo non militare. Faccio riferimento, ad esempio, agli aerei che erano apparsi sulla scena mondiale solo pochi anni prima e comunque non prima del secolo della Grande Guerra e che hanno avuto uno sviluppo eccezionale sotto il profilo della tecnologia. Mio padre mi raccontava spesso di un episodio da lui vissuto quando aveva circa dieci anni. A Roma nel quartiere Prati, doveva essere, se non erro, il 1908, venne Bleriot, un pioniere dei piloti francesi per una manifestazione aerea. In un grande prato, poco più grande di un campo di calcio, l’intrepido aviatore decollava ed atterrava. Il biglietto per assistere alla manifestazione era di 5 lire. Intorno al campo gli organizzatori avevano costruito una palizzata alta 3 metri. Serviva per non far vedere l’esibizione del pilota a coloro che non avevano comprato il biglietto!
Qual è stato il momento più difficile da raccontare tra le esperienze vissute da tuo padre al fronte?
Il momento più difficile, per me, nella stesura del racconto, è stato quando mio padre è stato ferito nella battaglia del Piave. Capivo dai suoi ricordi che era stato un momento di grave sofferenza. Essere bendato per mesi con il dubbio di poter rimanere cieco per il resto della vita deve essere stata una esperienza atroce specialmente se vissuta da un giovane di venti anni. Durante il primo viaggio mi raccontava che aveva contatti solo con il personale sanitario, medici e infermiere. Alcune volte riusciva a scambiare qualche parola con altri feriti, ma questi scambi di parole non duravano molto perché prima o poi gli sfortunati passeggeri del treno si rinchiudevano nei loro pensieri riflettendo sui loro drammi personali. Migliore era la situazione con quei feriti che avevano problemi di vista come mio padre. Anche quando il treno è arrivato a Milano, nonostante che fosse stata una meta desiderata, la situazione non è cambiata di molto. Infatti, nell’ospedale dove era stato assegnato è iniziata l’ansia per le operazioni agli occhi che avrebbe dovuto subire mentre intanto la guerra era finita. Mio padre allora non sapeva nulla, ma poi è apparso evidente, a seguito di numerose visite ed esami, che la zona del viso colpita dalla granata era in via di guarigione, restava però il problema del distacco della retina in entrambi gli occhi che richiedeva una tipologia di intervento, a quel tempo ancora in fase sperimentale. Le operazioni eseguite nel nord Italia sui due occhi, in tempi differenti, non hanno prodotto risultati e penso che siano stati una grave delusione. Grazie all’iniziativa del governo italiano dell’epoca, un gruppo di militari italiani, feriti in guerra, tra i quali mio padre, che potevano essere operati alla retina, furono inviati in Svizzera presso un centro di chirurgia oftalmica dove un illustre oculista operava con discreto successo. E fu così che Bruno ha riacquistato la vista da un solo occhio. So poco di quel periodo della sua vita, ma vi sono, tra le vecchie foto di famiglia, alcune immagini di mio padre in divisa con una benda nera su un occhio. Forse in quei momenti deve essere ricomparso il sorriso sul suo volto quando, nelle feste e nelle ricorrenze del dopoguerra, i militari, specialmente se feriti e decorati, venivano onorati e ammirati. Poi però tutto passa, partendo dal mito della Vittoria Mutilata, sono arrivate le turbolenze politiche, economiche e sociali degli anni Venti ed il cambiamento di regime nel nostro Paese. Nel libro, quando parlo del suo ferimento, sono stato piuttosto conciso perché ho temuto di essere inadeguato nel descrivere quella sofferenza. Una volta, quando avevo sette o otto anni, i miei genitori mi hanno portato con loro al cinema. Era un film in bianco e nero e raccontava la storia di due fidanzati che sognano di sposarsi pur dovendo affrontare problemi economici. Purtroppo, scoppia la guerra 15-18 ed il ragazzo parte per il fronte. Quando torna ha perso completamente la vista. Non ricordo se poi nel film si sono sposati, ma ricordo che all’uscita dal cinema mia madre aveva gli occhi lucidi e mio padre si asciugava gli occhi con il fazzoletto. È stata una delle poche volte che ho visto mio padre piangere. Mi sono chiesto più volte quanto il dramma di mio padre può aver avuto conseguenze sulla mia vita e su quella della mia famiglia. E devo dire Bruno per noi è stato veramente un eroe perché non ha mai fatto pesare la sua invalidità. Non era una persona introversa ma su certi argomenti era riservato. C’è un altro episodio che mi fa male ricordare. Una sera è tornato a casa con l’occhiale rotto. Aveva una montatura con una lente di semplice vetro, per l’occhio da cui non vedeva, mentre l’altra correggeva un lieve difetto dell’occhio sano. Entrò in una stanza con mia madre senza chiudere la porta e li sentii parlare a bassa voce. Raccontava di aver varcato una porta del suo ufficio ma non aveva visto il battente che non era completamente spalancato. Quante umiliazioni di questo tipo avrà dovuto subire nella sua vita?
Come credi che le esperienze di “nonno Bruno” riflettano lo spirito di tanti giovani soldati italiani di quel tempo?
Mio padre è nato nel 1898, soltanto per pochi mesi non ha fatto parte dei famosi “ragazzi del 99” che vennero così chiamati come ultima leva da impiegare nella strenua difesa del Piave e del Monte Grappa. Ciò però vale solo anagraficamente perché è ovvio che di fatto Bruno è stato uno di quei ragazzi che hanno formato l’ultimo baluardo contro un nemico che aveva invaso parte del nostro Paese. Nel parlare della Grande Guerra bisogna tener presenti due momenti distinti, il periodo prima di Caporetto e quello successivo fino alla Vittoria. Ne parlo diffusamente nel libro, qui mi limito a dire che nella prima fase c’è stata una logorante guerra di trincea che ha spento gli entusiasmi che vi erano all’inizio. A favore della guerra si erano schierati i nazionalisti che rivendicavano i territori del nord Italia storicamente occupati dall’Austria come Trento, la Venezia Giulia, Trieste e Gorizia. Il poeta Gabriele D’Annunzio faceva molti proseliti sostenendo che l’Italia doveva estendersi fino ai suoi confini naturali. Tra gli interventisti c’era anche Giuseppe Prezzolini, noto intellettuale. Poi c’erano i socialisti interventisti che speravano in un rivolgimento sociale derivante dalla guerra ed i liberali, che erano piuttosto tiepidi in quanto Giolitti, Capo del Governo italiano fino al 1914, considerava imminente la caduta dell’Impero Austro-Ungarico e quindi riteneva inutile e prematura una guerra foriera di lutti e gravi danni al Paese. Accanto a questi partiti politici vi erano gli industriali, una parte dei militari e la corte dei Savoia. Sul fronte opposto c’erano i socialisti ed i cattolici. I giovani italiani, con la loro carica di idealismo, seguirono in gran parte le idee interventiste e probabilmente mio padre deve essere stato tra questi. C’erano stati cortei tra gli studenti e manifestazioni di piazza a favore dell’intervento. Quando poi la guerra è iniziata, e con essa le sanguinose battaglie lungo il fiume Isonzo, gli stessi giovani hanno iniziato a comprendere la tragica realtà di quel conflitto. In relazione a quanto ho detto sopra sugli schieramenti politici, molti giovani a favore della guerra erano studenti e provenivano da classi sociali borghesi mentre quelli che vivevano in famiglie con genitori e parenti di idee socialiste o in famiglie e contesti di osservanza cattolica, erano meno disposti ad arruolarsi. Purtroppo per questi ultimi la leva obbligatoria di guerra non ha concesso alternative. Credo che mio padre nel periodo del trasporto salmerie, venendo a conoscenza delle enormi perdite sui campi di battaglia senza vantaggi concreti per nessuno dei due fronti, abbia cominciato a porsi alcune domande sul senso che poteva avere una guerra di tal genere e parlando di Bruno ritengo di interpretare i pensieri dei giovani militari italiani in armi in quel periodo storico. Per avere una idea di come la situazione fosse inestricabile, guardando oggi quel contesto con la lente degli storici, quando la guerra è finita gli stati che hanno perso: Germania e Austria-Ungheria, combattevano il primo in Francia e il secondo in Italia. Ciò dimostra come fossero bilanciate le forze in campo. Ho descritto nel libro la crisi di quel periodo. Nel 1917 è avvenuta una svolta per l’Italia, il tragico evento di Caporetto, e per la Francia e l’Inghilterra, l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Per l’Italia la guerra non era più uno stanco e sanguinoso scontro tra Stati europei, ma il possibile inizio del crollo di una Nazione con gravissime conseguenze per l’unità del Paese. E così è nata la linea del Piave che comprendeva a nord anche il Monte Grappa. La difesa del Piave era diventata una questione di vita o di morte. Dopo le gravi perdite di Caporetto si creò un nuovo esercito con i veterani delle battaglie precedenti, quelli che non erano morti o dispersi o prigionieri del nemico e con l’ultima leva, i ragazzi del1899. Anche i sostenitori delle correnti politiche contrarie alla guerra si resero conto che il momento era grave e molti socialisti si arruolarono, anche Sandro Pertini che diventerà poi Presidente della Repubblica. Si temeva la scarsa intesa tra vecchi e giovani e l’inesperienza di questi ultimi, ma tutti operarono con grande coraggio e abnegazione respingendo il nemico anche grazie alle strategie del nuovo Comandante in Capo, Generale Armando Diaz. Aldo Cazzullo ha messo in evidenza che è vero che gli alleati inviarono aiuti all’Italia, ma ciò avvenne solo quando si resero conto che il fronte aveva tenuto ed il nemico non avrebbe superato la linea del Piave, grazie anche ai ragazzi del 99. Per mio padre la svolta fu notevole, entrò nei Bersaglieri e poi negli Arditi, nel XII Reparto d’assalto, con il grado di tenente, e ha combattuto nella Battaglia dei Tre Monti e lungo la linea del Piave ove fu ferito. È rimasto nell’Esercito, tra i Bersaglieri, fino al termine della Seconda guerra mondiale.
Quale messaggio speri che i lettori traggano dalla storia di tuo padre e dalla rappresentazione della Grande Guerra nel tuo libro?
Parlare di guerra in Italia non è semplice perché pesano ancora, nella memoria collettiva, le delusioni e le sofferenze che ha subito il nostro popolo durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Esistono però degli argomenti sgradevoli, come ad esempio le malattie e la morte, che non è possibile ignorare. Tra questi vi è anche la guerra. Ho scritto su questo tema perché ho avuto in famiglia l’esempio e la testimonianza di una persona che l’ha vissuta sulla propria pelle, nel senso letterale della parola. L’antidoto migliore contro la guerra potrebbe sembrare il pacifismo, tutti al mondo desideriamo la pace e se ci astenessimo dal costruire armi sempre più letali ed onerose l’umanità eviterebbe lutti e distruzione di ricchezza. Purtroppo, nella realtà, ciò non sembra possibile perché c’è sempre, in questo pianeta, qualcuno che tenta di imporre la propria volontà agli altri, ricorrendo anche alla forza. Perciò un modo in pace senza armi resta una aspirazione di tutti che non riesce a concretizzarsi. Sono venuto a conoscenza delle idee di Bruno sulla guerra quando aveva cica cinquanta anni ed era invalido per ferite riportate nel conflitto 1915-1918. Cosa pensasse prima posso solo immaginarlo anche sulla base dei suoi comportamenti, quali il suo arruolamento in giovane età. Ogni uomo comunque può cambiare le sue idee in relazione a come si svolge la sua vita e a seguito delle proprie esperienze. Quando a sei anni ho chiesto a mio padre cosa fosse la guerra, mi rispose che era la cosa peggiore che l’uomo potesse fare, ma non sempre era possibile evitarla. Questa risposta mi rese perplesso perché veniva da un uomo che nella sua vita aveva scelto il mestiere delle armi. Con il passare degli anni in mio padre ho sempre visto un uomo che detestava la guerra, ma considerava la difesa del proprio Paese e della sua gente come un dovere ineludibile. Sosteneva che il mestiere del militare deve consistere non nel portare la guerra presso altri popoli bensì nel rendere sicura la pace. Quando studiavo giurisprudenza all’Università un giorno mi capitò di parlare con lui dell’articolo 11 della Costituzione che nella prima parte, tra i principi fondamentali, dichiara esplicitamente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”. Mi disse che apprezzava molto quell’articolo ma aggiunse che a lui piaceva molto l’articolo 52 “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Rimasi sorpreso della sua affermazione perché Bruno non era un esperto di diritto e non capivo come potesse essere al corrente di quella norma. Mi spiegò che per una strana coincidenza aveva partecipato ad una conferenza sull’argomento tenutosi pochi giorni prima al Circolo Ufficiali. Mi piacerebbe che gli italiani meditassero quegli articoli. Ho raccontato la storia di nonno Bruno perché tutte le esperienze degli altri sono utili nella vita di un uomo, ma ne sono particolarmente convinto adesso perché forse, leggendo quella storia, possiamo sentirci più vicini a quella parte di umanità che vediamo soffrire e soccombere tutti i giorni sugli schermi televisivi, nelle pianure dell’Ucraina e nei territori del Medio Oriente.
Grazie, Emilio, per averci portato a conoscere da vicino la figura di “nonno Bruno” e per averci offerto una visione così intima e dettagliata di uno dei periodi più bui della nostra storia. Il tuo libro è un’importante testimonianza che non solo ricorda le sofferenze di chi ha combattuto, ma offre anche uno spunto di riflessione per le generazioni future. Auguriamo a te e a tutti i lettori di “Nonno Bruno e la grande guerra” di continuare a custodire e tramandare la memoria di chi, con coraggio, ha contribuito a scrivere la storia del nostro paese.
