GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: L’arte in una stanza – Ana Maria Silvia Brechler

Oggi abbiamo il piacere di intervistare Ana Maria Silvia Brechler, autrice del libro “L’arte in una stanza”, un’opera che affronta temi affascinanti e attuali come il rapporto tra collezionismo, accumulazione e il fenomeno degli Hikikomori. Attraverso il suo libro, l’autrice ci invita a riflettere sul valore emotivo che gli oggetti possono assumere nel corso della vita e su come questi possano costituire una mappa visiva della nostra evoluzione personale. Brechler esplora anche il “luogo dell’arte”, uno spazio che non è solo fisico ma anche interiore, capace di ispirare profondamente l’artista. Un viaggio tra psiche, arte e introspezione, “L’arte in una stanza” ci porta a interrogarci sui limiti del collezionismo e su quei giovani che decidono di ritirarsi dalla vita sociale, fenomeni entrambi complessi e ricchi di implicazioni. Scopriamo di più direttamente dalle parole dell’autrice.

Nel tuo libro esplori il concetto di “luogo dell’arte”. Come definisci questo spazio e in che modo riesce a influenzare il processo creativo di un artista?

Prima di rispondere sento di dover far sapere che la domanda me la sono posta successivamente ed è diventata la tematica di tutto il libro anche se io la vedo piuttosto un approdare metaforico. Tutto è nato perché volevo meglio capire la disposofobia, termine clinico per indicare chi soffre di accumulo compulsivo. Questo tentare di voler capire cosa realmente sia e come si manifesti e soprattutto cosa accada nella mente di chi ne soffre mi ha portata a individuare artisti che ne hanno sofferto. Gli accumulatori si muovono all’interno di uno spazio, di un luogo fisico (la propria casa) e all’interno di esso danno origine all’accumulazione. Per rispondere nello specifico, alla domanda che lei mi ha posto, non do nessun tipo di definizione anzi, per meglio dire, è una domanda indiretta che rivolgo agli artisti, ai saturnini, agli outsider che possiedono consapevolmente o meno il Dono artistico (qualsiasi esso sia).  Il libro parla di tanti argomenti; primo fra tutti i luoghi e gli spazi esistenziali o mentali o addirittura virtuali. Comunque siano questi “luoghi”, che io ho definito e voluto rappresentare simbolicamente con il termine “stanza”, credo fermamente che siano necessari per sentirsi al sicuro e protetti dagli eventi improvvisi di questo mondo complesso.  Infine, non so se un luogo, piuttosto che un altro, possieda la capacità di influenzare il processo creativo. Quello che ad oggi posso dire è che, sicuramente, esiste un qualcosa che porta l’artista nel suo “stato di grazia”. Alla domanda che mi sono posta non esiste una risposta assoluta come non esiste una verità assoluta. Ogni artista troverà il suo spazio dove verrà ispirato perché alla base di tutti i discorsi che sono possibili fare l’importante è arrivare a considerare il fatto che il luogo in cui si muove e che sceglie di vivere ed occupare – che sia per una breve esperienza o per tutta la vita – si rispecchi.

Il tema del collezionismo e dell’accumulazione viene affrontato con profondità nella tua opera. Quali sono, secondo te, i fattori emotivi che portano una persona a circondarsi di oggetti con un valore simbolico?

Si, sono due temi, il collezionismo e l’accumulazione, che metto a confronto perché quando si parla di accumulazione è inevitabile fare riferimento al collezionismo. È fondamentale che si dica che questi due temi sono diversi. Il libro è nato con il tentativo di voler investigare l’accumulo compulsivo. Per rispondere in modo adeguato voglio svelare il mio processo di scrittura. Quando mi trovo a scrivere un libro di questo tipo, oltre a basarmi su fonti bibliografiche e scientifiche, è essenziale che mi confronti con altre persone. Questo per due motivi; il primo per capire quanto la tematica è conosciuta ed il secondo per accorgermi, realmente, quanto di essa possa essere compresa nella modalità che scelgo di presentarle. Detto questo, quando iniziai a scrivere il libro e avendo cominciato a confrontarmi, mi resi conto che le persone con cui ne parlavo confondevano l’accumulazione per collezionismo e spesso mi sono sentita dire che chi accumulava stava solo collezionando oggetti che più gli piacevano. Per questo motivo e sapendo che sono due termini differenti mi sono sentita in dovere, per amor di chiarezza, di distinguerli. I fattori emotivi che spingono ad accumulare o a collezionare sono svariati ma sono totalmente diversi. Chi colleziona lo fa per puro piacere per idolatrare e venerare l’oggetto, e per molti altri motivi soggettivi ma chi accumula lo fa perché patologico. L’accumulazione è possibile vederla come il continuum del collezionismo. Un continuo che da una pratica “sana” come il collezionismo si trasforma, per un determinato motivo (da scoprire), in patologia conosciuta come disposofobia. Come sostengo nel libro tutti noi custodiamo oggetti e quelli di cui non vogliamo disfarci li poniamo all’interno di una scatola o più e le riponiamo in soffitta o in cantina. È una pratica che ritengo essere naturale e dolce. È qualcosa che l’essere umano, in quanto tale, sente il bisogno di fare. Quindi se ci riferiamo ai ricordi d’infanzia va tutto bene in quanto quegli oggetti assumono un valore sentimentale e simboleggiano il proprio passaggio nella vita. riguardarli o solo il fatto che sappiamo esserci vicino ci aiuta a ricordare chi siamo stati e come e quanto sia cambiata la nostra vita e soprattutto ci dicono da dove veniamo e a chi famiglia apparteniamo. Ogni oggetto possiede un suo valore simbolico e spesso siamo noi che gli diamo tale qualità ma quando si parla di collezionismo e accumulazione il valore di questi oggetti cambia. Collezionare rappresenta una pratica che, come già detto, può rappresentare un senso ed un bisogno di venerazione e adorazione ma può essere un collezionismo a scopi economici come il collezionismo di opere d’arte o di oggetti di valore come orologi ecc. Chi accumula invece istaura con l’oggetto un rapporto tossico. Per l’accumulatore ogni cosa che compra o che si ritrova ad avere a fine giornata (dal giornale allo scontrino della spesa e nei casi più gravi la spazzatura ecc) diventano oggetti che non riesce a buttare via. In questo caso, il non buttare via, il non riuscire a disfarsi delle cose, credo sia dovuto, non tanto al senso di possesso, piuttosto al bisogno di dover riempiere un vuoto.

Parli del fenomeno Hikikomori, una forma di ritiro sociale che coinvolge molti giovani. Cosa ti ha spinto a includere questo tema nel tuo libro e come lo colleghi al concetto di arte e isolamento?

Quando si inizia a scrivere, che sia un romanzo o un libro di poesia o comunque quando si inizia un qualcosa non si sa mai con certezza assoluta dove si voglia arrivare. È probabile che apparentemente lo si sappia ma poi, inevitabilmente, scopriamo altre cose che non ci aspettavamo. Questo vale per il fenomeno Hikikomori che sono arrivata a trattare nel libro. Sono approdata in questo universo di isolamento e solitudine senza sapere che ne avrei parlato. Il mio primo intento era quello di investigare l’accumulo compulsivo ma poi mi sono resa conto che approfondendo sempre più il libro stava parlando di luoghi di appartenenza. Il libro ha un suo filo conduttore che è la stanza. Tutte le tematiche di cui parlo: accumulazione, collezionismo, follia, si “svolgono” in una stanza. L’accumulatore riempie fino a soffocare lo spazio delle stanze di casa, il collezionista crea la propria collezione all’interno di una stanza e la follia è stata nascosta per anni all’interno di celle che altro non sono che stanze dei manicomi (tetti rossi) e infine il fenomeno Hikikomori che vivono nella propria camera da letto che altro non è che una stanza. Ho voluto includere tale fenomeno innanzitutto perché, durante la stesura della bozza, se ne stava iniziando a parlare e poi perché l’aspetto sociale e fenomenologico sono aspetti che ritengo importanti da trattare. Parlare di arte è parlare di società e l’arte in questo ha un ruolo fondamentale. Gli artisti non fanno altro che porre una lente di ingrandimento sulla società in cui vivono e ce la mostrano così com’è o come dovrebbe essere. Nel libro ho tentato di capire di cosa si trattasse e cosa significasse essere Hikikomori e mi sono chiesta se Hikikomori lo si è o lo si può diventare e a cosa fosse dovuta la solitudine e l’isolamento che scelgono di vivere e se la stessa non fosse la solitudine di chi è Artista e per questo motivo si sente solo perché diverso dall’uomo comune. Infine, nel libro sostengo che l’Hikikomori non sia solo un fenomeno da vedere e percepire come evento passeggero ma come uno stile di vita differente da quello a cui siamo abituati a conoscere. Il mondo sta cambiando e lo fa in maniera sempre più repentina. Per questo motivo credo che l’arte lo abbia capito e ci stia aiutando a conoscere il futuro che ci attende. La domanda è se siamo e se saremo consapevoli ed in grado di accettare i cambiamenti che ci saranno in tutti i campi della vita. L’Hikikomori può essere l’artista del futuro? È possibile che l’arte stessa stia cambiando e si stia evolvendo, trasferendosi in una realtà virtuale e digitale. A dimostrazione di quanto detto c’è la scelta di una vita virtuale e l’utilizzo del digitale. Se sia o meno a discapito della vita che conosciamo questo è tutto da vedere. Probabilmente i nostri figli e gli artisti del futuro nasceranno in una società in cui tutto sarà cambiato e l’arte non la si farà più con tela e pennelli o con gli strumenti e materiali che oggi conosciamo. Si apriranno altri quesiti e altre visioni da dover prendere in considerazione.

Gli oggetti personali diventano spesso una sorta di specchio della nostra vita e delle nostre esperienze. Quanto credi che il collezionismo e il possesso di oggetti possa influenzare la nostra identità e il nostro benessere?

Gli oggetti personali sono e rimarranno sempre specchio di noi stessi. Ci rivelano e ci ricordano da dove veniamo e a chi apparteniamo. Raccontano una storia; la storia della nostra vita. Se si parla di collezionismo o del possesso di oggetti non penso che abbiano il potere di influenzare la nostra identità piuttosto credo che rispecchino ciò di cui abbiamo bisogno. Il collezionare o il possedere in modo compulsivo sono pratiche che andrebbero e devono essere viste come sintomi di qualcos’altro. Alla base di tutte le azioni che facciamo anche involontariamente dovrebbe esserci il fatidico “Perché”. Perché una persona decide di creare una collezione? Per collezionare è necessario possedere una grande dedizione. È pensata, è analizzata nel più piccolo dettaglio e motivazione. Chi invece vuole solo possedere un oggetto arrivando ad accumulare cose su cose non viene mosso da nessun “progetto” di base. È caos, è quasi indifferenza per l’oggetto. Il possesso va a incidere negativamente il benessere, forse con la speranza di voler nascondere la propria identità. Sarebbe interessante capire le motivazioni di tutti perché in questo modo scopriremmo tante cose, fra cui che siamo tutti diversi nonostante si rimanga uguali.

Qual è il messaggio principale che desideri trasmettere ai tuoi lettori attraverso “L’arte in una stanza” e come speri che il tuo libro possa stimolare una riflessione sui temi trattati?

Non mi stancherò mai di dire che il libro non vuole insegnare niente e non vuole nemmeno apparire una lettura per i soli “addetti ai lavori”. È un libro che a me piace definire “libro specchio” in quanto presenta una situazione sociale e cerca di farlo nella maniera più “smart”, sebbene presenti certe parti più cliniche. L’ aspetto più accademico è dovuto al fatto che la volontà era quella di dare delle indicazioni (da dover approfondito singolarmente da parte dei lettori). Premesso ciò, se il libro che ho scritto è portatore di messaggi vorrei che quello principale fosse di far capire che è normale sentirsi incompresi. Auspico che chi si sente ai margini della società perché magari troppo sensibile o possiede l’audacia di incamminarsi da solo sentendosi solo, in realtà non lo è. Mi rendo conto che questa sia una consapevolezza che la si acquisisce nel tempo ed è una lezione che, la vita ci dona prepotentemente, comprendendola sempre dopo. Ma non per questo non si ha il diritto di avere bisogno, lungo il percorso di crescita e conoscenza di sé, di qualcuno che ci sostenga e ci aiuti. Per questo motivo il libro si rivolge anche e soprattutto ai genitori, ai maestri e mentori e a tutti coloro che hanno il dovere, ed il privilegio, di educare ed insegnare. Il mondo come lo conosciamo oggi è complesso. Vivere appare impossibile. Credere che qualcosa di grande ci stia aspettando e che meritiamo quella grandezza appare utopia. La società di oggi pone i giovani di oggi a dura prova. Una prova che non consiste solamente nel crescere per come si è ma per superare gli altri. Non voglio essere pessimista e non voglio dire che oggi i giovani non hanno speranza. La mia è una sorta di denuncia verso una società, fin troppo legata a quello che era senza comprendere che le epoche si evolvono e le problematiche sociali variano a seconda dei mutamenti del tempo. Ritengo infattibile ed in certi casi egoistico pensare che un giovane di oggi debba rispecchiare quello che in un passato si richiedeva ad un giovane uomo o una giovane donna. Con questo non intendo dire che vada accettato tutto. È ovvio che ci debbano essere, alla base dell’educazione, valori ben sviluppati. Quello che sento di dire è che, da individuo che vive il presente, percepisco una carenza nei confronti delle regole del vivere civile. Intendo dire che, a differenza del passato, oggi tutto è permesso e soprattutto, ancor più dannoso, è giustificato. I tempi cambiano e le necessità con esse. Nel mondo giovanile esiste una confusione di base che porta ad una specie di oblio dei valori. In questo oblio le necessità cambiano e le problematiche psicologiche aumentano. Credo fermamente che educare all’empatia con la volontà di comprendere sinceramente cosa accada nella vita dei giovani sia un obbligo sociale. La vergogna di non essere abbastanza e l’ansia sociale a cui sono soggetti i ragazzi della nuova generazione sono problematiche che vengono sottovalutate e spesso ignorate. Insegnare che il dolore esiste, che la sconfitta esiste e che esistono tutti quei sentimenti che ci rendono fragili e vulnerabili come il senso di abbandono e di isolamento ma non solo anche l’invidia verso il diverso da noi, ecco credo essere ciò che manca alla società di oggi. È fondamentale dare ai ragazzi di oggi gli strumenti per difendersi. Non a caso esiste il detto “la conoscenza è potere”. Far sapere che una cosa è giusta e l’altra no, punire e non ovattare, far sapere che esiste anche il negativo forse migliorerebbe la situazione disfunzionale in cui molti giovani vivono. Se si riuscisse a far capire loro che il dolore può essere un prezioso alleato nei momenti in cui tutto può apparire perduto o senza significato e che affrontarlo senza negarlo allora avremmo un futuro adulto più consapevole del proprio potenziale e l’autostima di se stesso si alimenterebbe positivamente. Se riuscissimo a tenere aperto il dialogo, se ci allenassimo all’ascolto dell’altro senza voler prevaricare su niente e nessuno allora sono fermamente convinta che tante delle problematiche psicologiche e sociali che stanno interessando molti ragazzi verrebbero affrontate con più grinta e determinazione. È necessario che tutto ciò però parta dall’impegno di tutti. Se poi un libro riesce a dimostrare, ai giovani, che ci sono vie alternative e stimolanti, come l’arte e la sua realizzazione per riuscire ad accettarsi o se verrà letto da chi può aiutare la nuova generazione a formarsi allora potrò sentirmi fortunata.

Ringraziamo Ana Maria Silvia Brechler per averci accompagnato in questo viaggio affascinante tra arte, introspezione e riflessione sociale. “L’arte in una stanza” offre uno sguardo profondo su temi di grande attualità e ci invita a considerare quanto la nostra relazione con gli oggetti e lo spazio possa influenzare chi siamo e come ci rapportiamo al mondo. Un libro che non solo affascina, ma che stimola una riflessione profonda sui legami tra arte, vita personale e società.

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