Oggi abbiamo il piacere di parlare con Linda Motti, autrice della silloge poetica “Ero carcerato e mi siete venuti a trovare”, un’opera che affronta temi complessi e profondi, ispirati dall’esperienza dell’autrice nel mondo dei carceri psichiatrici giudiziari. Attraverso le sue poesie, Linda ci guida in un viaggio emozionante e doloroso, che esplora la psiche umana, il senso di isolamento, e la ricerca di redenzione e speranza. Le sue parole, intrise di sensibilità e verità, danno voce a chi spesso è dimenticato. Benvenuta, Linda, e grazie per essere qui con noi oggi.
Linda, il tuo libro prende ispirazione dall’esperienza presso un ex carcere psichiatrico giudiziario. Cosa ti ha spinto a trasformare queste esperienze in poesia?
Le emozioni, i sentimenti, gli incontri, le dinamiche vissute per la prima volta entrando in un Carcere psichiatrico spingevano dentro di me per essere comunicate. Non è possibile vivere situazioni che sono io ritengo privilegi, proprio perché non all’ ordine del giorno, senza renderne partecipi altri che siano interessati o meno. Le persone incontrate al Carcere, sia le persone ristrette che tutti gli operatori, hanno lasciato dentro di me un segno indelebile che porterò nel cuore tutta la vita. E, come per tutte le emozioni forti che io provo, ho sentito l’esigenza di trasmetterle attraverso ciò che è come il mio stesso sangue, la forma di comunicazione della scrittura. Un dialogo che mi pone davanti a me stessa e alla società, alle persone che la compongono, scrivendo appunto con il mio stesso sangue ciò che sento vuole uscire ed essere comunicato. Solitamente trasformo i racconti interiori in poesie e quando ho deciso di scrivere un libro genericamente detto ” sul Carcere” sapevo che non poteva essere tale. Volevo qualcosa che parlasse di vissuti, di umanità, di storie di vita più che di dibattimenti concettuali sul sistema carcerario, anche se poi queste storie di vita stesse portano ugualmente a una riflessione più generale, e quindi non potevo scrivere né un racconto, né un tema generalizzato, la poesia era l’unico modo per potermi avvicinare al cuore delle persone incontrate, al mio stesso cuore ma non nego che io mi sia chiesta se tutto ciò fosse stato possibile raccontarlo in lirica poetica senza scadere in qualcosa di superficiale e stupido. È stata una sfida, una pulsione che mi provocava, chiedeva di dare voce a un mondo sommerso, in ombra e ho accettato la sfida. Tocca a chi legge raccogliere e prendere ciò che più lo coinvolge o non lo coinvolge di questo mondo parallelo che ci scorre accanto.
La tua silloge si struttura seguendo il modello della “Divina Commedia” di Dante. In che modo questo parallelismo ha influenzato la narrazione poetica delle tue emozioni e delle storie che racconti?
Lo spunto con la divina commedia di Dante parte casualmente da una emozione fortissima che mi avvolse e mi agghiacciò il primo giorno di lavoro in Carcere. Non sapevo cosa aspettarmi da un mondo talmente complesso, non conosciuto e nuovo per me. Quando entrai nel corridoio che portava ai padiglioni delle persone ristrette, chiusa la porta blindata alle mie spalle, senza alcun mezzo di comunicazione con l’esterno, telefoni, cellulari, citofoni, sentii delle urla tremende venire da quegli stessi padiglioni. Grida continue, disperate, infuriate, voci che sembravano chiamare un aiuto sovraumano. Ne fui terrorizzata e ricordo che il primo pensiero che ebbi fu quello di chiedermi dove fossi finita e provai l’impressione fortissima di essere entrata in un girone infernale, nell’ inferno abissale raccontato da Dante Alighieri. Ecco perché poi scrivendo il libro volli ispirarmi alla divina commedia. Ma dopo mi resi conto in seguito che quel girone di dannati aveva come una forma a spirale, la quale paradossalmente saliva dal basso verso l’alto e mai viceversa. È stata una metafora per dire che l’augurio, il sentimento in seguito vissuto durante il mio lavoro era quello di un riscatto da una vita che si era, per qualche motivo, disintegrata, inciampata in una grande tragedia e che da quella si poteva ripartire. Non scrivo apposta il verbo ricominciare ma ripartire. Penso che la consapevolezza di ciò che ti è accaduto, per quanto orribile e drammatico possa essere, e parlo di persone con ergastoli o più di venti anni di detenzione da scontare o di mafiosi “illustri” del calibro di Totò Riina al 41bis in strettissimo isolamento, dicevo possa tramutarsi in una inquietudine verso il bene, verso la trasformazione della propria vita in un modo che valga la pena di essere vissuta seppure in un luogo di violenza e di morte dove per l’appunto i tassi dei suicidi sono altissimi includendo anche quello di agenti penitenziari che cercano di agire onestamente e spesso per questo motivo isolati dai colleghi più aggressivi così come fra medici e infermieri, contribuendo a portare uno spiraglio di umanità nel buio di chi sta riscoprendo se stesso e al medesimo tempo con se stesso deve fare i conti. Il non perdono, che è sempre un che di misterioso e che dal mio essere credente viene sovente dall’alto ma veicolato a tutte le persone operanti nel Carcere senza condannare e giudicare nuovamente, partendo dai volontari, da associazioni creative, da insegnanti fino agli operatori penitenziari e sanitari a contatto con il Carcere stesso, appunto questo non perdono è spesso il grande dramma e la vera grande pena di chi è detenuto in un Carcere. Sì, perché il perdono è realmente il primo passo verso un riprendersi in mano la propria vita anche in mezzo a limitazioni terrificanti. Ciò che è avvenuto e ti ha mandato in pezzi l’esistenza fa parte della tua storia ma quel dolore dilaniante, che scava le interiora ti trasforma lentamente giorno dopo giorno in una persona che tocca con mano un sé differente, che tende al bene, che può aiutare chi sta soffrendo accanto a lui. È il passaggio di Cristo, ripeto, scrivo da credente, nella nostra vita, un Cristo che cambia le prospettive, che resta accanto, che è sceso agli inferi per noi. Parlo al singolare perché questa esperienza di profondo cambiamento personale tocca anche gli operatori più sensibili e motivati e ce ne sono, nessuno ne è fuori. Io medesima ho avuto dei bellissimi rapporti con le persone ristrette e non ho potuto non esserne toccata nel profondo. Ho trovato anime e anime umanissime, di grande sensibilità interiore che raramente all’esterno di quel mondo sommerso ho incontrato. Posso dire di avere incontrato Cristo. Ecco perché è così importante rendere il Carcere un posto migliore, sembra Utopia, dove chi ha questa consapevolezza non venga bullizzato e isolato dal clima di violenza segno tangibile di frustrazione, stanchezza, turni massacranti, mancanze di organico, sovraffollamento, culture e situazioni personali di tutti, ospiti ed operatori, buttati al macello nello stesso fuoco che brucia ma che per alcuni diventa una spinta all’ oltre, al Cielo, al superamento del male. Ecco il girone dantesco in cui dagli inferi si sale gradatamente al paradiso, a una vera e propria resurrezione personale. Le poesie, infatti, nella sezione Inferno sono più disperanti e apparentemente senza via d’uscita mentre a mano a mano si sale verso la parte del Paradiso, composto da una sola poesia, si intravedono spiragli di raggi di sole sempre, comunque, di una emotività permeante.
L’isolamento e la sofferenza sono temi centrali nelle tue poesie. Come sei riuscita a bilanciare queste emozioni intense con un messaggio di speranza e redenzione?
Penso che la condizione umana sia quella basilare della fragilità, del dolore, della debolezza. Gesù stesso si è presentato e si è fatto Carne in mezzo a noi come uomo e non come un’supereroe dei fumetti invincibile, figlio di un Dio potente, giudicante, giustiziere. Si è fatto carico delle nostre debolezze, delle nostre paure, delle nostre estreme fragilità, dei nostri errori per consegnarci un tesoro. Il tesoro della sacralità della vita. La vita è sacra proprio perché fragile e attraverso questa fragilità ci viene data l’opportunità di essere liberi. Liberi anche in Carcere. Liberi di scegliere COME vivere la condizione di esseri umani fragili che hanno anche rigettato, rinnegato, distrutto questa libertà. Il dolore fa’ parte dell’esistenza, esiste, ci travolge, ci atterra, ci distrugge eppure se ciò è possibile un senso ce lo deve avere. Forse perché in quel dolore, in quel vuoto, in quella desertificazione dell’animo, in quel tacitamento delle nostre emozioni, in quel silenzio, in quel toccare il fondo, una voce altrove, una spinta ci dice che non possiamo molte volte evitare la nostra debolezza ma la possiamo usare, trasformare, modificare per agire l’amore, la virtù, l’empatia, la compassione, la vicinanza agli altri e il rispetto della nostra salute mentale, della nostra interiorità. È attraverso il Come che avvengono i cambiamenti, la scelta se lasciarci dannare o accettare l’aiuto di chi ci è accanto, di chi incontriamo sul nostro cammino, del Signore, della Sua parola che è una parola di liberazione, di Resurrezione, di Vita e non di morte, di agire nei nostri limiti, nelle condizioni anche più efferate, il bene e per il bene. La fragilità umana non spiega ma può decidere l’andamento della nostra vita rendendola misteriosamente sacra, meravigliosamente e sorprendentemente importante pur nelle continue tribolazioni, tragedie, drammi basta si sia disposti ad accettare un aiuto, una voce interna ad esserci, a sentirci liberi non si sa come pure quando invece si vorrebbe morire.
C’è una poesia in particolare che per te rappresenta il cuore della raccolta? Se sì, potresti raccontarci il suo significato personale?
A distanza di tempo forse c’è una poesia in particolare che sento alla fine attualmente la più significativa ed è “ho bevuto il detersivo”. Però fondamentalmente in questo libro non c’è stata come per alcuni altri scritti, una poesia dedicata che rappresenta il cuore della raccolta. Tutte le poesie mi sono sorte spontanee avendo avuto ciascuna un’anima particolare che ha bussato alla mia porta. Ogni poesia parla o del ricordo di qualcuno o di una situazione o di un’emozione o riflessione. Il Carcere può essere anche letto come qualcosa di violento che ci costruiamo noi dentro per punirci, perché non ci amiamo, perché ci sottovalutiamo, perché non ci sentiamo accolti e amati da nessuno, tralasciati e abbandonati, non di questo mondo che ci impone di essere come magari noi non vorremmo. E allora ci incarceriamo, ci mettiamo una maschera, un abito che non è il nostro e che non ci rende felici. Sono sempre più in aumento tantissimi casi di depressione o disturbi mentali nelle persone adulte e adesso anche in molti adolescenti e preadolescenti tanto che ora viene dedicata una giornata all’ anno sul tema della salute mentale senza parlare delle molteplici iniziative istituite in varie occasioni che trattano queste problematiche proprio perché ci si impongono vite che non ci appartengono pur di non essere lasciati ai margini, dimenticati. Non a caso spesso la vecchiaia, la malattia, il dolore, la solitudine che avrebbero bisogno di massima attenzione e ascolto vengono spesso rifiutati, silenziati come se non esistessero affatto perché fanno paura se non orrore. Da qui il rifiuto dei singoli individui considerati quasi colpevoli di portare queste fragilità da parte dei propri famigliari, compagni, amici e dalla società stessa con la messa in atto di approcci di esclusione, bullismo medicalizzazione estrema, istituzionalizzazione di tutto ciò anziché considerare le cosiddette diversità vere e proprie risorse umane di arricchimento e cambiamento interiore frutto spesso di una mancata istruzione consapevole alle radici di una società che si considera vincente se ha determinate caratteristiche anziché accorgersi della grande perdita e disfatta valoriale a cui va quotidianamente incontro.
Nel tuo libro, dai voce a chi spesso rimane invisibile nella società. Quanto è importante per te, come autrice e poetessa, far emergere le storie di queste persone dimenticate e trascurate?
È fondamentale. Posso dire: l’ho scritto con il mio sangue. Non mi ritengo una voce autorevole in nessun tema di persone messe ai margini o dimenticate. Si tratta di un mistero della mia coscienza, della mia anima e del mio cuore, di cittadina italiana e cittadina del mondo. Anche io sono stata messa ai margini, dimenticata, ho avuto dolori, ho pianto, ho rigettato la vita ma poi l’ho riafferrata perché non l’avevo in realtà mai persa veramente. Eppure, anche io ho attraversato i miei deserti. Questo mi rende vicina a chi soffre, a chi non ce la fa più, a chi è stanco e vorrebbe una sorta di eutanasia psicologica dalla vita. Il mio lavoro nelle Carceri mi ha fatto capire una cosa fondamentale che ho già accennato nelle altre risposte. La fragilità umana è parte della nostra vita che in questo ha una sua forte sacralità. La nostra vita, per quanto tremenda, è unica e irripetibile. Non permetto a nessuno di potermi dire “poverina”, al massimo, semmai, me lo posso dire io e basta. Nessuno è esente dal dolore, nessuno. Nessuno è esente da un dramma improvviso che travolge la propria vita, nessuno è esente dal perdere umanamente la propria vita. Anche coloro che dicono: Lei non sa chi sono io, chi ha un Suv da non so quanti mila euro, chi si presenta ricoperto di Rolex e luccica come uno specchio deforme e cialtrone, chi dice che tutto va bene e ha un ottimo lavoro, chi è ricchissimo, a chi pare la vita abbia regalato solo successi, chi governa, chi si dimostra forte e vincente e non balbetta. A tutti può capitare qualcosa per cui nulla può essere come prima. Ho capito che fra noi fuori e i ristretti dentro un Carcere non c’è nessuna differenza se non a tragedia compiuta. Ma la base è sempre che la natura umana non è onnipotente ma è delicata, invisibile e fragile come un fiore di prato o una farfalla che vola. Se sappiamo trasformare le nostre morti terrene in non giudizio, non condanna, in vicinanza e rispetto, in misericordia, mitezza e purezza, in metamorfosi continua al bene e al rispetto, in ascolto, in lacrime, in commozione e silenzio, in carezza e gentilezza, in capacità di vedere le risorse di ognuno, di camminare accanto, in essere uomini e donne di luce, se sappiamo avere parole d’amore e cadere per poi ripartire, possiamo dire che forse ne è valsa la pena. Bisogna avere coraggio per stare accanto all’ orrore ma tutto ha inizio dalla nostra umanità e dalla società che ci circonda. Il Carcere dovrebbe essere abolito poiché è luogo di grande violenza, di chiusura e di morte fisica e psicologica. Altre strade dovrebbero essere intraprese per ridare una fiammella, una vita migliore, nuova a chi si è perduto. Penso sia un dovere civico e morale di ogni comunità e più ampiamente di ogni società. Più in generale, se posso dar voce con la mia invisibilità a chi non ha voce, può darsi che la mia esistenza sia servita a qualcosa di infinitamente piccolo come un chicco di grano che guarda caso se perisce porta molto frutto.
Grazie, Linda, per aver condiviso con noi la tua visione e il viaggio interiore che hai voluto raccontare attraverso “Ero carcerato e mi siete venuti a trovare”. Le tue poesie ci ricordano l’importanza di non dimenticare chi vive ai margini, offrendo loro una voce e una possibilità di riscatto. Siamo certi che la tua raccolta toccherà profondamente chiunque la legga. Ti auguriamo il meglio per il futuro e per i tuoi prossimi progetti.
