Gli anni Settanta hanno rappresentato un periodo di profonde trasformazioni, di nuove sperimentazioni sociali e culturali che hanno segnato il percorso di un’intera generazione. Marco Tomasi, con il suo libro “Questa è l’annata di uno di noi – 1° trimestre”, ci riporta a quegli anni con un approccio intimo e diaristico, offrendo uno spaccato della vita di un venticinquenne che, insieme ai suoi amici, riflette e dibatte su eventi epocali e sulle emozioni che questi provocano. In questa intervista, approfondiamo con l’autore i temi, le ispirazioni e le esperienze personali che hanno dato vita a questa sua prima opera.
Marco, cosa ti ha spinto a raccontare gli anni Settanta attraverso una narrazione diaristica? Qual è stato il processo di scrittura di questo primo volume?
Il libro era nato come diario! Per rispondere in maniera argomentata devo partire dall’inizio. In occasione della mia laurea, nel dicembre del 1969, mia madre mi aveva regalato un bellissimo diario, in pelle di cervo, con sul davanti un disegno celtico dell’albero della vita, e sul retro l’albero della conoscenza del bene e del male, con 400 fogli in carta cotone, dei quali i primi 365 erano stati intestati a caldo coi rispettivi giorni del calendario ambrosiano. Era un librone di 2 chili. In altre parole, era un sopramobile. La dedica, scritta a mano sulla prima pagina, però, diceva “Questo diario è il ritratto in bianco della tua prossima annata”, il che mi invogliò a compilare il librone con estrema cautela, e in modo selettivo. Naturalmente il diario è sempre rimasto a casa, in bella mostra sulla credenza della sala da pranzo. In cambio mi ero procurato un quaderno di campagna su cui appuntavo i momenti del giorno che per me erano i più significativi, sapendo naturalmente che prima o dopo li avrei rivisti e corretti, e quindi ricopiati sul diario originale. Senonché, verso la fine del primo trimestre, mi resi conto che l’ambiente giovanile che stavo frequentando andava al di là delle mie aspettative. In effetti, in quanto borsista post-laurea del Politecnico di Milano, mi ero trovato a soggiornare in una casa albergo frequentata prevalentemente da studenti universitari, tutti personaggi carismatici, brillanti, pieni di vitalità, di sogni e di introspezione. Il diario, pertanto, si trasformò ben presto in una narrazione diaristica, perdendo così le caratteristiche del diario vero e proprio. Scelsi, istintivamente, una decina di personaggi, che avrei poi seguito fino alla fine dell’anno. Li presentai, pertanto, al mio lettore fantasma, un personaggio virtuale, che, quando scrivo mi si siede sempre davanti, dall’altra parte della scrivania, pronto a correggermi e a apprezzarmi, a ridere e a piangere, a ispirarmi e a zittirmi, a seconda del caso. Seguire questi personaggi per un‘intera annata è stata un’avventura indimenticabile. Contro ogni aspettativa, però, man mano che le leggende personali dei vari protagonisti si dispiegavano, svelando senza scampo il cammino esistenziale di ognuno di loro, la predestinazione manzoniana dei Promessi Sposi divenne la protagonista silente di tutto il racconto.
Nel tuo libro, il contesto politico e sociale emerge con forza. Come hai scelto di trattare il delicato equilibrio tra descrizione storica e introspezione personale?
È stata una scelta obbligata. La descrizione storica è quella che io, con linguaggio accademico, chiamo più semplicemente “condizioni al contorno”. Ognuno di noi si muove in un contesto storico particolare, e con esso dobbiamo fare i conti. Fra l’altro, l’annata 1970 si era presentata fin dall’inizio come un anno di transizione, che io poi ho anche voluto riassumere nel Prologo: “guerre, terrorismo, secessionismo, tutti chiari fenomeni di indipendentismo nel lento processo dell’autodeterminazione dei popoli. In accordo, la guerra in Vietnam, le attività terroristiche della Provisional IRA nell’Irlanda del Nord, nonché le prime manifestazioni in Italia delle Brigate Rosse, sulla falsa riga dei guerriglieri di Che Guevara, ne hanno dipinto l’intero fondale con tinte forti e indelebili, in un clima politico altrimenti stanco, caratterizzato dalle trite e ritrite rivendicazioni del movimento studentesco, che non si rassegnava ancora a morire”. Erano condizioni al contorno ideali per un racconto diaristico, anche perché i diversi personaggi ne sarebbero stati senz’altro influenzati. Sto pensando, ad esempio, al personaggio Maddalo, simpatizzante di Che Guevara e della Brigate Rosse. Brillante, socievole, simpatico, ma senza dubbio in un altro contesto storico si sarebbe manifestato diversamente. Era il tipico Sessantottino, che credeva in antivalori sociali, ma ciò non toglie che fosse un maremmano coi fiocchi, assillato da problemi esistenziali tipici di un ventottenne alla ricerca di risposte perenni. La natura umana, infatti, non cambia mai, che cambiano semmai sono la moda e le priorità geopolitiche. Il 1970 è stata un’annata fuggente, come del resto lo sono tutte le altre, ma unica nel suo percorso e, quindi, perché non prenderla al volo? O tempora, o mores! – diceva Cicerone già 2000 anni fa – Che tempi! Che costumi! Se il diario mi fosse stato regalato cinque anni prima, agli inizi dei miei studi universitari, molti dei compagni di viaggio probabilmente sarebbero stati altrettanto carismatici, brillanti, pieni di vitalità, di sogni e di introspezione, ma invece di camminare in montagna con ai piedi anfibi d’alta quota, chissà avrebbero camminato a piedi scalzi in riva al mare. In entrambi i casi, comunque, a stimolarli ci avrebbe pensato la giovinezza, che è una costante storica.
Gli Stati Uniti, come hai evidenziato, giocano un ruolo predominante negli eventi di quel periodo. Quanto ha influito questo aspetto sulle vite dei giovani protagonisti del tuo libro?
Nel Sessantotto, un anno che è poi diventato famoso per le infinite contestazioni studentesche, io frequentavo il quarto anno di Ingegneria Civile (Idraulica) al Politecnico di Milano, per cui mi trovavo nell’occhio del ciclone. Allora c’erano più conferenze che lezioni, quindi era facile trovarsi in un‘aula dove invece di parlare di Stati dell’Arte si parlava di Stati Uniti. Io ascoltavo volentieri tutti i politicanti, anche se di fatto ero resiliente alle loro proposte. Non tutti i loro argomenti, però, erano campati in aria. Ad esempio, come tutti sappiamo, la Seconda guerra mondiale è stata vinta fondamentalmente da una triplice alleanza formata da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica. C’erano naturalmente anche altri alleati secondari, senza contare le bande di partigiani, italiani e francesi, che combattevano un po’ qua un po’ là con la baionetta in mano. È un fatto, però, ben evidenziato nel Sessantotto, che gli unici a giocare fuori casa sono sati gli Stati Uniti, per cui, una volta finiti i conflitti, mentre gli altri belligeranti dovettero investire tutte le loro risorse per la ricostruzione del loro paese, gli Stati Uniti in cambio, non avendo danni da ripristinare, poterono prendersi il lusso di prestare denaro ai vinti, e così controllarli, come le banche controllano i loro debitori. Niente di cui vergognarsi, naturalmente, solo che gli Stati Uniti si sono poi assuefatti al controllo di tanti altri stati sovrani, non solo con i prestiti ma anche con le armi, come ad esempio il Vietnam e l’Iraq, e la scusa per intervenire l’hanno sempre trovata. Io, però, questa pretesa sessantottina l’ho solo digerita quarant’anni dopo. Nel 2010 ero appunto in Iraq, nell’ambito di un programma bilaterale promosso dal Ministero delle Risorse Idriche iracheno. Si trattava di decidere come usare in modo efficace i 60 chilometri cubici di acqua che Madre Natura mette annualmente a disposizione del paese. Io, professionalmente, sono sempre stato un Indiana Jones dell’ingegneria ambientale e delle risorse idriche e territoriali, nel senso che ho sempre avuto a che fare con grandi fiumi in ecosistemi incontaminati, come il Pilcomayo in Bolivia, l’Amu Darya in Afghanistan, e il Tigri ed Eufrate in Iraq. Sona bacini imbriferi immensi, tanto per dare un’idea il bacino imbrifero del Pilcomayo, da solo, è grande come tutta la penisola italiana. Appena finito lo studio di fattibilità per l’Iraq, che fra l’altro terrà impegnato il Paese fino al 2035, mi si era presentata l’opportunità di andare nei Caraibi al matrimonio di mia figlia. Il viaggio in aereo prevedeva una connessione a New York con un’altra compagnia aerea. Ebbene mi fu negato accesso al volo, con atterraggio negli Stati Uniti, perché avevo speso due anni in Iraq nell’ambito della cooperazione internazionale, per ricostruire un paese che loro stessi avevano distrutto. Cioè, il loro controllo è meticoloso, e investe non solo i singoli paesi ma anche le singole persone. Il mio acerrimo amico Maddalo, questo me l’aveva fatto notare già nel 1970.
I personaggi che delinei sono ritratti con grande cura e realismo. Quanto c’è di autobiografico nei protagonisti e quanto, invece, è pura invenzione narrativa?
Sono tutti personaggi reali ma sotto copertura. I nomi sono stati cambiati, e il loro luogo d’origine pure, sebbene nel rispetto del loro bagaglio culturale e del loro retroscena sociale. Ad esempio, i personaggi alessandrini, forse non sono proprio di Alessandria, ma sono però piemontesi, ossia non sono né friulani né nonesi. Dei personaggi pubblici, naturalmente, è stato mantenuto il nome, come ad esempio i professori del Politecnico, perché in un cero senso fanno parte del retroscena storico culturale che è una reliquia conservata nel libro. Chiaramente, gli stessi protagonisti del libro, se lo dovessero leggere attentamente, volendo potrebbero anche auto-identificarsi, ma nessun altro lo potrebbe fare. No è escluso, comunque, che qualcuno che mi conosceva personalmente potrebbe anche avere la presunzione di identificare alcuni personaggi con cui ho condiviso momenti particolari, ed è proprio per salvaguardare questi ultimi, che ho inserito un Disclaimer in fondo al libro che afferma che l’opera letteraria si ispira a un’annata particolare, ricca di eventi storici ed episodi privati, ma che tutti i nomi, i dialoghi e i fatti citati nell’ambito degli episodi privati, sono frutto della fantasia e della libera espressione dell’autore, per cui ogni riferimento, abbinamento o identificazione di persone viventi o vissute, o di vicende personali realmente accadute è puramente casuale e non intenzionale. L’unico vero nome di battaglia è Mike Paul, il tenente americano della trilogia vietnamita, così almeno com’era chiamato da tutti suoi commilitoni che era riuscito a riportare in patria sani e salvi. Io però, che ho avuto l’occasione di conoscerlo di persona, posso dire che il suo vero nome di battesimo è un altro.
Questo è il primo volume di una serie che esplora gli anni Settanta. Cosa possiamo aspettarci nei prossimi capitoli di “Questa è l’annata di uno di noi”?
Per dirla come un montanaro, nato alle falde innevate del Brenta, posso dire che questo primo trimestre è un “battipista”, che serve più che altro a presentare i personaggi principali che saranno poi seguiti nel corso dell’intera annata. I prescelti sono pochi, ma buoni. In effetti, è per merito loro che il libro si è infilato in un canalone inaspettato, di neve non battuta, affascinante ma alquanto impegnativo, ricco di imprevisti, e con la possibilità di valanghe. Se il battipista mi indicherà che il canalone è buono, incomincerà la gara vera e propria. Che vinca il migliore.
Grazie, Marco, per averci accompagnato in questo affascinante viaggio negli anni Settanta. Con “Questa è l’annata di uno di noi”, ci hai regalato una finestra su un’epoca di grande fermento e, al tempo stesso, su emozioni e riflessioni che rimangono attuali. Non vediamo l’ora di scoprire cosa ci riserveranno i prossimi volumi di questa serie che, con la sua ironia e profondità, ci fa riflettere su come gli eventi del passato continuino a influenzare il nostro presente.
