GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: Tra ombra e luce. Storie di ordinaria giustizia – Stefania Panza e Guglielmo Gulotta

Oggi abbiamo il piacere di ospitare due autori che hanno saputo coniugare le loro esperienze professionali in un’opera avvincente e ricca di spunti di riflessione. Stefania Panza e Guglielmo Gulotta ci accompagnano nel complesso universo della giustizia con il loro libro “Tra ombra e luce. Storie di ordinaria giustizia”, una raccolta di dodici racconti ispirati a fatti realmente accaduti, che esplora i confini sottili tra innocenza e colpevolezza, tra il giusto e lo sbagliato. Grazie alle loro competenze – Stefania Panza come giornalista esperta di cronaca nera e giudiziaria, e Guglielmo Gulotta come avvocato e professore di Psicologia Giuridica – ci offrono una visione privilegiata e intensa dei retroscena forensi. Entriamo quindi nel cuore di questo viaggio affascinante e scopriamo di più sui temi trattati nel libro e sulle storie che vi sono raccontate.

Nel vostro libro, “Tra ombra e luce”, affrontate storie tratte da casi reali. Come avete selezionato i casi da raccontare e quale criterio avete utilizzato per dare loro vita narrativa?

La prima fatica è stata proprio selezionare i casi da affrontare poiché, in oltre cinquant’anni di attività avvocatizia ancora in essere, il Professor Gulotta ne ha migliaia. Abbiamo scartato quelli più crudi, seppur interessanti, come per esempio storie di infanticidi, o casi già molto noti alle cronache, come per esempio quello delle “Bestie di Satana”. Fra una trentina di casi rimasti, abbiamo cercato quelli più peculiari sotto il profilo giuridico e umano, e che fossero rappresentativi di una certa tipologia di reato, in modo da fornire al lettore un ampio ventaglio: dal più semplice, come un caso di mobbing, ad altri più complessi come la pedofilia fino ai più paradossali come il caso dei fidanzatini accusati di sequestro di persona per una ‘fuitina’. Per coinvolgere il lettore e conferire una veste narrativa, abbiamo poi pensato a due voci narranti, entrambe in prima persona: quella della persona accusata, che si raccontava per ciò che accadeva a lui e alla sua vita, e quella dell’avvocato, che oltre al coinvolgimento emotivo si soffermava su aspetti più tecnici inerenti allo svolgimento del processo. Infine, ispirandoci ad alcune lettere che il professore aveva ricevuto dai clienti che aveva assistito, le abbiamo trasfigurate e riportate nel libro, insieme ad altre che sono frutto di invenzione. Per dare al lettore, anche dopo la conclusione processuale della vicenda, una voce che narrasse emotivamente gli stati d’animo non sempre così visibili nelle fredde cronache giudiziarie, e che fungesse da trait d’union di tutte le storie.

Guglielmo, lei ha una lunga carriera come avvocato e docente di Psicologia Giuridica. Quanto la sua esperienza professionale ha influenzato la narrazione dei casi e in che modo ha contribuito a delineare le sfumature psicologiche dei personaggi?

Per rispondere devo tornare alle origini, ovvero a quando avevo depositato la tesi di laurea e stavo attendendo il giorno della discussione. Erano i primi mesi del 1964 e una sera ero andato a vedere un film che si chiamava “Passioni segrete” con sottotitolo: Freud. Chi fosse questo tizio non ne avevo la minima idea. In sostanza, nel film si raccontavano le prime esperienze del maestro viennese, di quando fondò la psicoanalisi anche sulla base delle sue esperienze di ipnotista in cui faceva rivivere ai pazienti momenti della loro vita passata. Ricordo che letteralmente saltavo sulla poltrona del cinema e pensavo “ma tutto questo potrebbe essermi utile nel mio lavoro di avvocato! Un testimone o imputato può essere aiutato a ricordare quello che è accaduto e ad essere in grado di ricostruire vicende della sua esistenza sia che si tratti di eventi comuni che di fatti criminosi”. Mi iscrissi all’università per specializzarmi in psicologia e da allora, in ogni caso che mi capita, pongo l’attenzione non solo all’aspetto giuridico ma anche a quello umano, perché umane sono le persone che si muovono nel processo: avvocati, magistrati, testimoni, vittime, ciascuno con la loro storia. Storia fatta non solo di quel momento di rilievo processuale, ma di tante esperienze precedenti e davvero non credo sia corretto giudicare una persona solo in base al fatto-reato, una persona non si può ridurre solo a quello. Nel giudicare un fatto anche in casi di delitto grave l’esistenza di una persona non può essere ridotta a solo quell’atto. La prospettiva psicologica è dunque per me imprescindibile e resto veramente stranito dal fatto che negli studi di giurisprudenza non sia incluso lo studio della psicologia che ha caratterizzato anche taluni premi Nobel. Da sempre, in ogni caso che affronto, si tratti anche di un semplice incidente stradale, pongo dunque l’attenzione agli aspetti umani che vi confluiscono. Faccio l’esempio: tizio, guidando un’automobile con accanto un amico, percorre una provinciale. Sulla destra, qualcuno con un’altra auto è fermo allo stop. Lui rallenta mentre l’altro resta fermo. Quando tizio sta per superare l’incrocio, l’autista che fino a quel momento era fermo, riparte, ed ecco l’incidente che provoca il ferimento del trasportato. Qualunque avvocato, in fase di difesa, se la caverebbe con una semplice ricostruzione che riguarda gli aspetti tecnico-giuridici. Io aggiungo la questione delle scelte interdipendenti in cui le parti non possono comunicare tra loro, ciascuno deve pensare che cosa farà l’altro ma non può saperlo e quindi va a tentoni. E ho detto: “Signor pretore, il mio cliente ha rallentato, l’altro era fermo allo stop. Quello fermo allo stop l’ha visto rallentare, il mio assistito ha ripreso la velocità normale, l’altro però avendolo visto rallentare, pensava che si sarebbe fermato. Il risultato è stato che il mio assistito poteva essere certo che l’altro non sarebbe ripartito solo dopo aver superato l’incrocio. Ergo non ci poteva essere nessun concorso di colpa”. Questo approccio psico-giuridico che mi contraddistingue da sempre si è travasato nel libro inevitabilmente e ha portato a delineare meglio i protagonisti attraverso il loro carattere, i loro pensieri, le loro paure, le loro motivazioni e il loro modo di rapportarsi alla società. Certe volte mi rimprovero, vista la mia età, il “vizio” di continuare lavorare, ma poter osservare da vicino, con materiale di prima mano, vicende umane così dolorose e complesse non lo considero solo un impegno ma un privilegio. Le persone raccontate nel libro non sono personaggi ma esseri umani in carne e ossa, che ho conosciuto e con i quali ho convissuto vicende da non credere. Difendendoli, sono entrato nelle loro vite, e loro nella mia. Era per me impossibile fare diversamente anche riscrivendo in questo libro le loro storie.

Stefania, come giornalista esperta di cronaca nera e giudiziaria, lei ha raccontato molte storie di ingiustizia e sofferenza. Quali sono stati i momenti più difficili nella scrittura di queste vicende e come ha bilanciato l’aspetto giornalistico con quello narrativo?

Come giornalista che per molti anni si è occupata di cronaca nera e giudiziaria, necessariamente mi sono dovuta confrontare con la sofferenza, la morte, la giustizia e l’ingiustizia, e le molte emozioni con cui ci si deve confrontare quando si ha a che fare con umane vicissitudini che esulano dalla normalità e straripano. È sempre stato questo, per me, il fascino: vivere da vicino storie al limite e cercare di comprendere le motivazioni che hanno portato a uccidere, rubare o violentare. E analizzare criticamente tutto. Altresì mi ha sempre affascinata assistere a come l’umana giustizia rappresentava quanto accaduto anni prima nelle aule di Tribunale, e come andava a finire. Ho sempre divorato gli atti che componevano un processo, e con altrettanta ‘voracità’ ho sempre cercato di scavare nelle vite dei protagonisti, diretti e indiretti. La scelta di scrivere un libro insieme al professor Gulotta, di vicende umane e giudiziarie, ha dunque stimolato ciò che da sempre mi affascina. Nella scrittura ho inevitabilmente dovuto ridurre l’aspetto giornalistico, più immediato ma più sintetico, e dare maggiore spazio a quello narrativo, con particolare attenzione agli aspetti tipicamente umani come la gioia, l’ansia, la paura, lo sconcerto. Ho scritto come se raccontassi a qualche amico quello a cui mi era capitato di assistere, immedesimandomi nel reo o presunto tale, in chi era accusato di un certo reato. Questa è stata la parte maggiormente difficile: l’esercizio di immedesimazione mi ha fatto stare male ma mi ha permesso di cogliere con maggior profondità cosa può succedere a una persona quando si trova a dover affrontare una tragedia, di cui può essere attore passivo o attivo. In particolare, mi hanno stremata emotivamente i casi dei due papà accusati ingiustamente di aver abusato delle loro bambine. Uno di loro si uccise. Immaginare lo strazio e l’estrema sofferenza che hanno preceduto la morte è stato terribile.

Il libro si muove tra il genere della non fiction novel e quello della narrazione investigativa. Qual è stato il vostro obiettivo principale nel combinare questi due generi e quale messaggio sperate arrivi ai lettori?

Abbiamo sempre pensato che la realtà superi di gran lunga la fantasia, e che bastasse dunque ispirarsi a fatti realmente accaduti per costruire una narrazione che fosse però lontana dalla cronaca e avesse una architettura vicina al genere della narrativa: perché riteniamo che in questo modo la lettura sia maggiormente alla portata di tutti e che permetta di superare la necessaria superficialità imposta dalla estemporaneità. La non fiction novel, che entrambi amiamo molto, è un genere non certo nuovo: da Truman Capote a Primo Levi, da Emmanuel Carrère ad autori italiani come Andrea Tarabbia, che nel Il giardino delle Mosche (2015) ha narrato la storia del famoso serial killer russo Andrej Čikatilo, scrivendo in prima persona, diventando lui. Per professione entrambi abbiamo sempre scritto dei nostri “casi”, seppur in maniera differente, e ci abbiamo investigato, credendo molto nella narrazione. Raccontare una storia, o stare ad ascoltarla, o leggerla, fa parte dei bisogni dell’essere umano e fornisce un senso alla realtà. Per dirla con Hannah Arendt, la narrazione «rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi». Basta dare un’occhiata ai social media per rendersi conto di quanto le persone amino raccontare e leggere quanto gli altri hanno da dire.  Le storie possono aiutarci a capire chi siamo, in che epoca viviamo, come è fatto il mondo che ci circonda, in questo caso quello della Giustizia.  La stessa realtà giudiziaria scritta negli atti, se ci pensate, è una narrazione di fatti e voci raccolte da tutte le parti in causa. Andando un po’ contro corrente, come autori abbiamo poi scelto di scrivere una raccolta di racconti, genere in Italia poco percorso, se non da pochi e non di recente.  Perché anche attraverso questa struttura narrativa pensiamo che per il lettore sia più semplice iniziare e finire una storia prima di affrontarne un’altra. Anche perché sono storie importanti, dense, che devono lasciare lo spazio per riflettere tra una e l’altra.  Crediamo che la formula della raccolta di racconti sia anche vicina alla frenesia della vita di oggi, con poco tempo a disposizione per la lettura: così, basta un viaggio in metro per leggere un racconto e poi chiudere il libro; o quando si è stanchi, la sera, non si deve recuperare o seguire il filo di un romanzo; o ancora, sotto l’ombrellone, la lettura di uno o due racconti lascia poi lo spazio per fare molto altro

Le storie che raccontate ci pongono spesso di fronte a dilemmi morali e ambiguità che sfidano le certezze del lettore. Quale è stata la sfida più grande nel raccontare situazioni così complesse e quali riflessioni vi augurate che emergano dal confronto con queste vicende?

Si, si tratta di storie che possono inquietare, proprio perché vere, accadute realmente e dunque in grado di minare le certezze del lettore, dell’incrollabile Giustizia che ci governa e che utopicamente non può sbagliare in quanto giusta.  Leggendo le storie narrate nel libro ci si rende invece conto che ci si può trovare nei pasticci senza aver fatto nulla di male, che si può essere condannati anche ingiustamente e che la giustizia, al pari del resto della vita, è piena di ombre. Questo è certamente destabilizzante. I feedback che ci sono arrivati si riassumono proprio con i vocaboli ‘inquietante’ e ‘destabilizzante’: purtroppo non abbiamo fatto altro che limitarci a riportare quanto accaduto e accade, con il più onesto spirito di narratori di umane vicissitudini.  Quelle dei lettori sono sensazioni assolutamente comprensibili dato che, da vicino e da dentro, a parte gli addetti ai lavori, la giustizia e il suo funzionamento non sono noti ai più. Speriamo dunque che il nostro libro possa essere, oltreché una piacevole lettura, anche uno strumento di conoscenza e accrescimento personale in un campo misterioso e pieno di ombre come quello della Giustizia, che non spaventi ma permetta unicamente di prendere consapevolezza.  La sfida maggiore nella scrittura dei dodici racconti è stata cercare di non gettare fango sulla Giustizia, una delle impalcature della nostra democrazia, e nella quale entrambi crediamo. Ne abbiamo messo in luce le ombre, che fanno parte dell’umano vivere e dunque anche del giudicare

Grazie, Stefania e Guglielmo, per averci accompagnato in questo affascinante viaggio tra le ombre e le luci della giustizia. Il vostro libro “Tra ombra e luce. Storie di ordinaria giustizia” ci ricorda quanto la realtà possa essere a volte più intricata e sorprendente della finzione, e ci invita a riflettere sui confini della colpevolezza e dell’innocenza. Siamo certi che queste storie lasceranno una traccia profonda nei lettori, spingendoli a interrogarsi sui limiti della giustizia e sulle responsabilità umane.

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