Bentornati lettori! Oggi ci immergeremo nelle pagine di “Storia di quel che sarò” di Maristella Mezzapesa, un’esperienza narrativa che si discosta dai canoni tradizionali del libro. Non solo un testo, ma un viaggio emotivo, un intreccio di storie e domande sospese nell’eterno presente. Quest’opera si fa eco dell’esperienza con i pazienti pediatrici oncologici, dischiudendo una realtà di fragilità e forza allo stesso tempo, che trova espressione sia nei gesti che nei disegni dei bambini.
Maristella, “Storia di quel che sarò” è un’opera che esplora le profondità emotive dei pazienti pediatrici oncologici attraverso i loro disegni. Come è nata l’idea di utilizzare questi disegni come strumento per dare forma e voce alle esperienze dei bambini?
Durante la mia esperienza nel reparto di Onco-Ematologia Pediatrica, ho constatato che le parole spesso non sono sufficienti per trasmettere le complesse emozioni e paure legate alla malattia e al percorso di cura. È così che ho deciso di adottare il “Test psicologico della figura umana” di Machover come uno strumento proiettivo di personalità. Questa scelta ha aperto una finestra preziosa sulle esperienze interiori dei bambini, consentendomi di cogliere aspetti profondi e talvolta nascosti dei loro vissuti
Lavorare con pazienti così giovani e vulnerabili richiede una grande sensibilità. Come affronti le sfide emotive e psicologiche nel tuo lavoro quotidiano, cercando di alleviare il peso che questi piccoli devono portare?
Nel mio approccio alla cura, cerco di abbracciare ogni sfumatura della loro vita, andando oltre la semplice gestione medica della malattia. La mia pratica si fonda sull’idea che curare un bambino non debba limitarsi solo agli aspetti fisici, ma coinvolga anche gli aspetti emotivi, relazionali, sociali e spirituali. È un impegno profondo che richiede delicatezza e attenzione sia alle sfide mediche che a quelle più intime ed emozionali che i bambini e le loro famiglie devono affrontare. Ho constatato quanto sia cruciale la collaborazione con un’équipe multidisciplinare, composta da medici, psico-oncologi, infermieri, volontari, figure spirituali e insegnanti, tutti guidati dall’idea di “prendersi cura” anziché dal solo “curare”. Questo approccio consente di individuare e potenziare le risorse del bambino, affrontando non solo gli aspetti medici ma anche promuovendo il suo benessere e la qualità della vita. Il fulcro della mia pratica risiede nell’instaurare un rapporto di fiducia con il bambino e la sua famiglia fin dalle prime fasi della malattia. Cerco di vedere il bambino prima come un individuo in crescita e poi come un paziente, rispettando le normali esigenze di sviluppo. L’obiettivo è contrastare l’aspetto deumanizzante e depersonalizzante dell’ospedalizzazione, creando un ambiente che rispetti la sua dignità. Nel corso della malattia oncologica, l’ascolto attivo e l’esserci come presenza che accompagna e “prende per mano” assumono un ruolo cruciale. Cerco di comprendere le emozioni e le preoccupazioni del bambino, permettendogli di esprimersi liberamente. Al contempo, mantengo uno sguardo orientato al futuro, promuovendo la speranza e sostenendo il bambino nel suo cammino di crescita. La Psico-oncologia svolge un ruolo chiave nel facilitare il processo di accettazione della malattia e nel fornire un sostegno emotivo fondamentale. Il bambino, nella sua totalità, è al centro, e si lavora per rendere il percorso di cura più tollerabile, consentendo al bambino di partecipare attivamente e preservando sempre la sua identità. In sintesi, mi dedico a garantire che il bambino, prima di tutto, sia visto e trattato come un individuo, nella sua singolarità e complessità, andando oltre la malattia.
Con questo libro evidenzi dell’importanza di trasformare l’esperienza emotiva in qualcosa di concreto, come ad esempio i disegni. Come questa forma di espressione ha impatto sui bambini e quale ruolo svolge nel processo di guarigione e di gestione delle emozioni?
I segni sono stati da sempre di vitale importanza per l’evoluzione dell’uomo e continuano ad esserlo anche ai nostri giorni. Quelli tracciati sui fogli dai bambini, incontrati in questa esperienza, sono forme che si sostituiscono alla parola nella funzione di richiamarne ancora altre; sono, quindi, parte del linguaggio che fluisce tra la mia e la loro persona, un ponte, una base per comunicare, in quanto fonte di trasmissione di un messaggio. Il disegno, infatti, si profila come una modalità di espressione, di comunicazione e di rappresentazione dell’immagine di sé, delle pulsioni, delle emozioni e dei desideri. La sua funzione è tale sin dalle sue origini e, i graffiti, le incisioni, le pitture rupestri, ne sono una sorprendente testimonianza. Il segno è impregnato di significato in quanto simbolo dell’affermazione di una identità, raffigurazione del suo passaggio e della sua Storia. Risiede in ciò il peculiare potere del disegno come rivelatore non semplicemente dell’attività intellettiva dell’esecutore ma anche del suo ricco, spesso nascosto, mondo emozionale. È per le seguenti ragioni che il disegno è considerato un ottimo mezzo di valutazione della personalità dell’individuo ed in particolare del bambino. Si evince chiaramente la scelta di utilizzarlo in questo lavoro, in quanto, insieme al gioco, risulta essere uno degli strumenti ideali per esprimere e comunicare con più immediatezza il mondo interiore. Nella sua funzione di intermediario tra il mondo conscio ed inconscio, il disegno offre al bambino la possibilità di tradurre visivamente le sue fantasie, tensioni, bisogni, ansie, sentimenti di amore ma anche di odio, le sue modalità difensive, i conflitti intrapsichici e con il mondo esterno, eventuali traumi e le sue impellenti richieste d’aiuto che spesso il bambino non riesce ad esplicitare a parole. Con il disegno si dà, quindi, la possibilità di “dire” l’innominabile. La realtà interna del bambino, comprendente stati d’animo sia di gioia che di sofferenza, si deposita su un solido e rassicurante contenitore quale è il foglio bianco su cui si esegue il disegno. Tale funzione di contenimento e conservazione del foglio di carta risulta essere particolarmente importante nei momenti in cui prevalgono angosce di frammentazione del sé e angosce di disintegrazione, come nel caso di bambini affetti da una neoplasia. Nella suddetta declinazione il disegno non assume mai un significato neutro ma si esprime sempre come una modalità attraverso cui narrare della propria persona. Tanto è vero che, il disegno, è annoverato tra gli strumenti diagnostici più significativi proprio per la sua capacità di accedere, in via privilegiata, alla conoscenza dell’inconscio. Si evince che nel disegno come nel segno, inizialmente citato, esista un contenuto manifesto e uno latente e, la sequenza che il bambino presenta può essere paragonata alle libere associazioni del paziente adulto. Inoltre, all’interno della relazione terapeutica è uno dei sostituti migliori, insieme all’attività ludica, dell’espressione verbale, facilitando la comunicazione con il bambino-paziente: «dietro il disegnare e il dipingere vi è una profonda attività dell’inconscio e cioè la procreazione e la produzione dell’inconscio dell’oggetto raffigurato» citando Melanie Klein; per cui, il bambino, con l’attività grafica, riesce ad esprime ciò che non riesce a dire a parole, narrando la sua storia affettiva, tracciando il tessuto vivente degli oggetti interni fondatori del proprio sé. Ciò che appare alla nostra visione non è mera forma di qualcosa ma l’eco di un contatto tra il nostro e l’inconscio del bambino. Sul disegno, ancora, si dice: «si anima come una specie di teatro affettivo e può divenire un teatro generatore di significato-senso, nello sviluppo costruttivo che le due menti- paziente e analista- ne sapranno fare» (Meltzer, 1984), in tal maniera si presenta come un vero e proprio fotogramma onirico del funzionamento mentale e dei movimenti emotivi-affettivi della coppia paziente-analista. Con l’aiuto di quest’ultimo è possibile anche la riparazione, restaurazione e ricreazione di un mondo interno confuso, angoscioso, inammissibile, divenendo, così, pensabile e simbolicamente rappresentabile. Nel disegno, i bambini, si ritrovano quindi a vivere uno spazio analitico dove la verità viene costruita e non semplicemente ritrovata. Traspare, ponendoci da questo punto di vista, che il disegno, è soprattutto un mezzo prezioso per la conoscenza del mondo emotivo e, possibilmente, di cura.
Alcune domande senza risposta restano sospese nell’eterno presente. Questa dinamica di domande irrisolte si riflette spesso nel vissuto dei pazienti. Come gestisci l’equilibrio tra il desiderio di risposte e l’accettazione delle incertezze, specialmente lavorando con i bambini oncologici, e come questa dualità si manifesta nella tua pratica professionale e personale?
L’accettazione dell’ignoto emerge come un intricato processo che richiede profondità e complessità, coinvolgendo la capacità di confrontarsi con l’incertezza e l’assenza di risposte definitive. Nella mia pratica clinica, l’accettazione si intreccia con la possibilità di esplorare l’ignoto insieme ai pazienti e alle loro famiglie, creando un terreno fertile per la costruzione di significati. Il desiderio di risposte può essere un riflesso della ricerca di senso e significato in situazioni estremamente difficili; tuttavia, l’accettazione delle incertezze diventa cruciale per evitare di cadere in un approccio riduzionista o illusorio. La mia proposta è di abbracciare l’ignoto come un territorio in cui possono emergere significati personali e collettivi, offrendo un’opportunità per costruire un senso adattativo alla realtà della malattia. Nel mio lavoro, creo uno spazio terapeutico che permette ai pazienti e alle loro famiglie di esplorare le domande irrisolte, le paure e le speranze. Attraverso l’apertura all’ignoto, incoraggio la condivisione di pensieri ed emozioni che possono emergere durante questa esplorazione, in cui la narrazione diventa uno strumento potente per dare forma a significati, costruendo ponti tra il noto e l’ignoto. La costruzione di significati non è un processo isolato, ma piuttosto una collaborazione tra terapeuta, paziente e famiglia. Sottolineo l’importanza di riconoscere la soggettività di ciascun individuo, consentendo loro di attribuire significato alle proprie esperienze in modo singolare. L’esplorazione dell’ignoto diventa così un viaggio condiviso, in cui emergono risorse personali e collettive. La possibilità di costruire significati nell’ignoto può essere collegata alla prospettiva di crescita post-traumatica. Attraverso il processo terapeutico, incoraggio la riflessione su come le esperienze difficili possano portare a una maggiore consapevolezza e cambiamento positivo. Inoltre, nel mio cammino personale oltre che professionale, mi ritrovo costantemente in un viaggio di auto-esplorazione e riflessione. Trovo che la gestione di questa dualità non sia un processo statico ma in costante evoluzione, in cui anche io insieme ai pazienti mi ritrovo ad essere un partecipante attivo nella co-costruzione di significati. Questo processo dinamico implica una flessibilità costante da parte mia, un adattamento continuo alle esperienze singolari di ogni bambino e famiglia. Mi ritrovo, di volta in volta, a modellare la mia comprensione e a adattare il mio approccio; la co-costruzione di significati diventa così un processo dinamico in cui anche la mia comprensione del mondo si evolve continuamente. Ogni incontro è un capitolo nuovo, una pagina bianca su cui si scrivono nuovi significati. In conclusione, accettare l’ignoto non implica una resa di fronte all’assenza di risposte, ma piuttosto un’apertura a un terreno fertile per l’esplorazione, la comprensione e la costruzione di significati.
È cambiata la percezione sociale delle malattie pediatriche nel corso degli anni e quale impatto pensi abbia avuto sulla cura e sul sostegno fornito a questi pazienti e alle loro famiglie?
Negli ultimi anni, ho notato un significativo mutamento nella percezione sociale delle malattie pediatriche, con impatti sostanziali sulla qualità della cura e del supporto rivolti ai bambini e alle loro famiglie. Questa evoluzione può essere attribuita in parte all’apertura crescente della società nei confronti di queste tematiche, influenzata dalla visibilità mediatica sempre maggiore di storie che affrontano in maniera approfondita le sfide dei bambini con patologie croniche, come dimostrato da diverse opere cinematografiche e televisive. L’esposizione pubblica a tali narrazioni ha contribuito a smantellare stereotipi e a promuovere una maggiore consapevolezza delle complesse dinamiche emotive e psicologiche coinvolte. La rappresentazione accurata di queste esperienze nei media ha favorito una comprensione più profonda e compassionevole nella società, generando una discussione meno stigmatizzante e più aperta. Dal punto di vista psicologico, questo cambiamento positivo si riflette nella crescente disponibilità di risorse specializzate per affrontare gli aspetti emotivi e psicologici delle malattie pediatriche. L’accesso a servizi di supporto psicologico, infatti, è cruciale per aiutare i bambini a gestire il peso emotivo associato alle loro condizioni mediche, contribuendo al loro benessere complessivo. Nonostante questi progressi, rimangono sfide rilevanti. La condivisione di storie può aumentare la consapevolezza, ma è imperativo garantire che i pazienti non siano emarginati da contesti fondamentali per il loro sviluppo. L’inclusione totale in ambiti educativi e sociali è essenziale per il loro benessere psicologico, evitando il rischio di isolamento e stigmatizzazione. In un’epoca in cui film, serie TV e altri mezzi di comunicazione stanno aprendo la discussione su tematiche precedentemente evitate, il mio libro “Storia di quel che sarò, incontri su un foglio bianco” (un tassello nel mosaico di cambiamento della percezione sociale nei confronti delle complesse realtà della malattia pediatrica), si inserisce in questo contesto, offrendo una prospettiva nuova. Attraverso la narrazione delle vite dei pazienti, il libro aspira a superare le barriere dell’ignoranza e della paura, creando un ponte tra il mondo delle malattie pediatriche e la vita quotidiana. L’intento dell’opera è lontano da una semplice esposizione di fatti, mira piuttosto a sfidare i tabù sociali legati a malattia, morte, dolore e sofferenza, tematiche che ancora troppo spesso vengono trattate con riserbo, allontanati o evitati nella società, pur essendo parte integrante della nostra vita. Il desiderio è, quindi, quello di stimolare una riflessione più profonda sulla nostra umanità comune, evidenziando sia la vulnerabilità che la forza che emergono in situazioni di difficoltà. Inoltre, la condivisione di queste storie, inclusa nel panorama più ampio di una società in evoluzione, si propone di favorire un dialogo aperto e inclusivo, contribuendo a una maggiore comprensione e accettazione delle sfide legate alle malattie pediatriche. In conclusione, nel panorama dell’evoluzione della percezione sociale delle malattie pediatriche, riconosco che la condivisione di opere come il mio libro, insieme a film e serie TV, rappresenta un passo significativo. Tuttavia, è imperativo sottolineare che queste opere non possono essere fini a sé stesse. Devono essere catalizzatori di azioni concrete all’interno della società. La narrazione autentica presente nel mio libro è, come dicevo, un ponte tra il mondo delle malattie pediatriche e la vita quotidiana. Tuttavia, questo ponte deve estendersi al di là della pagina scritta. La condivisione delle storie dei pazienti deve tradursi in atti tangibili, sia nell’ambito delle relazioni tra i bambini malati e le loro famiglie, sia nella società nel suo complesso. È fondamentale che la società non solo assista passivamente alla narrazione di queste esperienze, ma si impegni attivamente in un processo di riflessione e cambiamento. L’incontro con il libro, e altre opere simili, dovrebbe essere il punto di partenza per iniziative concrete. La mia volontà è quella di portare il mio libro nelle scuole e nella società, affinché possa fungere da catalizzatore per un dialogo aperto. Il desiderio è che il libro non sia solo letto, ma discusso, analizzato e che, soprattutto, spinga a azioni che trasformino la percezione delle malattie pediatriche. L’incontro tra il testo e il lettore deve evolvere in un impegno attivo per abbattere barriere, combattere stigmi e promuovere un ambiente inclusivo. È nell’incontro con l’altro che queste storie hanno la possibilità di prendere vita, contribuendo a un cambiamento significativo.
Maristella Mezzapesa, attraverso la sua esperienza con i pazienti pediatrici oncologici e la narrazione di “Storia di quel che sarò,” apre una finestra verso mondi emotivi complessi e delicati. L’uso dei disegni come forma espressiva diventa una testimonianza tangibile della forza e della fragilità che si intrecciano nelle storie dei bambini malati, suggerendo nuove prospettive e spazi di riflessione sulla natura umana e sulla guarigione.
