Intraprendere il cammino della bellezza e della poesia come indagine dell’essenza della vita è un atto coraggioso, una dedizione che abbraccia l’anima stessa delle cose e dei legami umani. Con uno sguardo profondo su questo viaggio intrapreso, Marta Vicoli, autrice de “Il Fico di Esther”, ha trasceso le pagine per narrare non solo la storia di una donna, ma il cuore pulsante di un’intera epoca. La sua penna si tuffa nell’intimità umana con “Il Fico di Esther”, un’opera che abbraccia non solo i dettagli di una vita, ma il respiro di un’intera nazione in continua trasformazione, dall’epoca dei ’50 fino ai giorni nostri.
“Il Fico di Esther” racconta una storia che abbraccia un intero periodo storico. Qual è stata la sua fonte principale di ispirazione per dar vita a questa narrazione così intricata e coinvolgente?
Le stratificazioni della memoria storica e personale in una vita lunga non rimangono fisse e inalterate, si decompongono un po’ e si mescolano con le istanze più profonde dell’io, dando vita al mondo immaginario, intimo e complicato, che ogni essere umano protegge dentro di sé. In questo continuo scambio di verità nostre, solo nostre, e quelle imposte dal mondo, si crea una specie di intercapedine che prende vita nella letteratura. In questo inconsapevole campo intermedio, le conseguenze della memoria di esperienze vissute si vestono delle parole non dette, delle colpe inconfessate, dei desideri non soddisfatti che, documentati o inventati, diventano poesia o romanzo.
Nel suo percorso letterario ha sperimentato diversi generi e forme di scrittura. Come ha affrontato la transizione da una scrittura più oggettiva a un racconto intrecciato con la sua esperienza emotiva per “Il Fico di Esther”? Ha sottolineato l’importanza della bellezza e della poesia nella sua vita. Come queste due forze hanno plasmato la sua visione della narrativa e l’approccio alla scrittura di questo romanzo?
Tra le esperienze di lavoro, traduzioni, saggi, progetti, un filo rosso intermittente, ma saldo, è stata sempre la poesia che, essendo l’espressione più autentica dei miei pensieri e del mio vissuto, protetti nell’ambiguità alta della parola poetica, ho per anni considerato la mia più concreta essenza, con tutte le fole inventate per essere finalmente fuori da me. Il passaggio alla scrittura più realistica di un romanzo di formazione che attraversava più di cinquanta anni di vita osservata attraverso i cambiamenti interni dell’autrice ed esterni del mondo che finalmente guardava con occhi ben aperti, è stato un cammino lungo e che ho potuto fare solo dopo aver riconosciuto gli anni di indifferenza verso le esigenze profonde di libertà nell’armonia e nella bellezza, che la mia natura cercava da sempre e solo allora sono stata capace di trasferirle, riconoscendone le radici emotive, le frustrazioni e le imposizioni culturali ,nel personaggio di Maria Luisa.
Attraverso il suo viaggio di traduttrice e autrice, ha mantenuto un legame forte con la tua terra pur viaggiando e immergendosi in altre culture. In che modo la sua provenienza abruzzese ha influenzato il suo stile e i temi che affronta nei suoi lavori?
E’ stato un passaggio lento, favorito dal mio carattere impulsivo e caparbio, insieme alle condizioni favorevoli della mia vita che mi hanno prima spinta verso gli “altrove” che ogni giovane donna dovrebbe poter sperimentare e poi a capire che quelli che credevo fossero “sassolini” nelle scarpe, il dialetto della nostra terra povera tenuto nascosto, il carattere scontroso della nostra periferia geografica appartata, la nostra perseveranza scambiata per cocciutaggine contadina, erano in effetti le qualità che ci distinguevano, che amavo perché mantenevano la preminenza dell’umiltà, ma orgogliosa, nella popolazione d’Abruzzo, certo per secoli isolata, ma ricca di fermenti di pensiero e che, soprattutto, aveva mantenuto alcune prerogative inalterate e al tempo stesso creative di fronte all’uniformità imperante della cultura odierna.
“Il Fico di Esther” non è solo la storia di un singolo personaggio, ma riflette anche i cambiamenti di una nazione nel corso del tempo. Qual è il messaggio principale che desidera che i lettori traggano da questa opera?
A questa domanda non riesco a rispondere in modo appropriato, in quanto sono inconsapevole di qualunque messaggio involontariamente trasmesso a chi dovesse leggermi. Quello che capita a me come lettrice de Il fico di Esther nelle testimonianze o le invenzioni di Marta Vicoli è una specie di meraviglia estraniante che non mi permette di distinguere chi è esistito veramente nelle vicende raccontate, da chi è nato in quelle pagine e perché. Mi è tornato in mente allora W.H. Auden che, a Carlo Izzo che lo intervistava a Venezia, chiedendogli perché in un suo verso fosse happy the hare in the morning (felice la lepre al mattino), lui rispondeva “Why not?”
La storia di Marta Vicoli, intessuta di viaggi, parole e profondità emotiva, si staglia come un percorso luminoso attraverso le epoche e le emozioni umane. Con “Il Fico di Esther”, ha abbracciato il cuore di una nazione, intrecciando la propria esperienza con la trama stessa della storia. Nel racconto della sua vita e delle sue opere, emerge un’inestimabile dedizione alla ricerca della verità intrinseca, un’indagine che si snoda tra la bellezza della poesia e l’intimità dei rapporti umani. Grazie, Marta Vicoli, per averci condotto attraverso le strade della memoria e della complessità umana, arricchendo il panorama letterario con la tua autenticità e profondità d’animo.
