Siamo molto felici di avere con noi l’autore del libro “I dormienti”, Giovanni Figuera. Prima di iniziare, vorremmo ringraziarlo per averci concesso questo spazio e speriamo che questa intervista possa fornire ai lettori una visione più approfondita del suo lavoro e della sua carriera.
Come nasce questo romanzo? Che cosa l’ha ispirata?
Nasce per caso anni fa durante una mia permanenza estiva in Sardegna, l’isola che, in una delle rappresentazioni di cui parla Aristotele era chiamata “la terra del sonno atemporale “in virtù del mito dei Dormienti che narra dei nove figli di Eracle che, giunti nell’isola di Sardegna di colpo si addormentarono, sospendendo così lo scorrere del tempo verso la morte… Da queste letture nasce l’idea di un racconto che potesse essere anche uno stimolo per risvegliare molte coscienze addormentate, di cui spesso mi sento circondato specie nella mia terra natia, ma non solo, visto il momento attuale. Mi riferisco a quelli che non percepiscono il significato dei loro gesti, del loro muoversi nel proprio mondo, incapaci di reagire ai fatti quotidiani, di andare oltre la facciata senza riuscire a cogliere la realtà delle cose. Esattamente come nei Dormienti del filosofo e aristocratico Eraclito, fustigatore della massa, considerata gente priva di anima e intelletto, diciamo i mediocri, che Eraclito opponeva ai Desti che al contrario andavano oltre le apparenze e sapevano indagare a fondo la propria anima. Sono state queste reminiscenze scolastiche che mi hanno poi suggerito il titolo.
Quanta importanza hanno in questo romanzo l’ambientazione geografica e le radici?
Ho scritto questa storia immaginaria, (non autobiografica) ambientata in un’isola altrettanto immaginaria a largo della Sicilia, di una nobile e antica famiglia, i Montellieri, che, nell’arco di tre generazioni, manifestano tutti, come una tara genetica (di cui sembrano affetti, per svariati motivi, tutti gli abitanti dell’isola), una latente incapacità ad accettare la realtà, pur dolorosa come può essere traumatica una tragedia familiare vissuta da bambini, ma che diventa giustificazione per un’inadempienza sociale ed esistenziale che non permette loro di evolversi come individui, come soggetti sociali, come padri, madri, figli, etc. Ecco allora il senso della narrazione: un monito, affinchè i ricordi, quando vengono costantemente sollecitati dalla nostra memoria, quasi come pensiero unico o ragione di vita, non diventino poi il pretesto per qualsiasi impossibilità all’agire. È La memoria dunque che ci allunga la vita”? Vero è però che noi preferiamo sollecitare i ricordi del passato, perché già vissuti, e perché “possiamo sceglierli e ricomporli per affrontare con maggiore fiducia un futuro sconosciuto e pieno di rischi” (come scrive Yu Hua nell’introduzione del suo L’eco della pioggia). Anche la poetessa e performer bolognese Patrizia Vicinelli morta di AIDS nel 1991, scriveva nel suo taccuino << La Memoria come Trauma dell’Universo>>. Ecco allora che il racconto diventa quasi un processo a questa capacità della memoria, una revisione di quei singoli ricordi che per i personaggi de “I Dormienti,” diventano i “cuori palpitanti “della memoria storica di tutto un territorio o di una realtà densa di contraddizioni.
Nel caso ad esempio, di Tanitto Montellieri, persino la fuga dalla sua terra diventa solo un pretesto di continuità. La “malattia del ricordo,” infatti, come un’ossessione, si protrarrà persino fuori dall’isola, contaminando anche chi gli starà accanto. Il romanzo dunque è però anche un’allegoria grottesca, che si dipana lungo le pieghe e i guasti della nostra Storia italiana (il fascismo, l’occupazione nazista, la liberazione anglo americana e le sue conseguenza, la nascita dei potentati politici e criminali negli anni del boom economico, fino agli anni di piombo e al disimpegno degli anni 2000) visti però volutamente come un’ambientazione scenografica, in cui i personaggi si muovono quasi indifferenti, vittime solo del loro ricordo compulsivo, descritto e narrato da ciascuno sempre in prima persona, attraverso la propria personale esperienza, la propria visione dei luoghi e dei fatti, ciascuno col proprio sistema valoriale o modo di esprimersi, come ci si trovasse ad ascoltare una confessione davanti allo specchio. E dove l’autore non può far altro che trascrivere le loro parole, senza prenderne posizione.
Già, le radici sono importanti per chi come me è stato spesso circondato da gente che della propria esistenza ricordava soprattutto i fatti dolorosi, sempre orientati con la memoria verso il proprio vissuto (quelli de “a buonanima…”), senza mai guardare al presente e meno che mai al futuro. Sollecitato anche da quei loro “difetti socio-comportamentali,” come il vittimismo, l’autocommiserazione, l’esasperazione di cose semplici o al contrario la semplificazione di fatti drammatici e soprattutto il pettegolezzo, usato come pretesto per crearsi consenso o riconoscimento sociale, ho voluto, ma senza acredine, sottolineare tali anomalie anche relazionali. Io sono nato e cresciuto fino a vent’anni in un luogo della Sicilia con il mare davanti, come presenza fisica meravigliosa ma opprimente, oltre cui lontano, all’orizzonte, vedevo un altro mondo che mi attraeva ma al contempo mi faceva paura.
Come definirebbe Claudio? Il protagonista della storia e il portavoce di una storia familiare che ha necessità di essere ripercorsa?
Claudio è un personaggio complesso, vittima del tempo e delle contraddizioni di una Società che lo vuole sempre vincente, ma di cui non riesce a mantenerne la responsabilità e la fatica. Per questo ritorna in quell’Isola che in qualche modo l’attira, come “una mela avvelenata”, riproponendo la fuga del padre, ma in modo opposto. Forse anche incuriosito dal bisogno di conoscere e avere accanto i propri Lari (quelle divinità che nell’antica Roma rimanevano a protezione del proprio focolare domestico). Va dunque alla ricerca dei suoi fantasmi, che riaffiorano prepotenti e che diventano quasi reali, forse come un antidoto contro un sofferto modo di vivere che lo accomuna a tutti gli altri esponenti della famiglia. Queste presenze ingombranti e imprevedibili che appaiono improvvise tra le pagine, come rievocazione del proprio vissuto o forse come proiezioni psicotiche, rendono sonnolente anche lui, incapace alla fine di interagire in una realtà decadente che va in rovina.. Claudio è certo un perdente ma di calibro diverso, rispetto agli altri abitanti dell’isola, in grado di contrapporsi, con arroganza aristocratica ma fine a sé stessa, a quell’ambiente sociale ristretto, “infinitamente piccolo” e non evoluto. Ma soprattutto capace di sfidare, costi quel che costi, persino quel “malidittu mari” che lo circonda e lo controlla come fosse un‘entità malefica artefice di tutto il male possibile.
C’è un autore o un libro che l’ha influenzata in modo particolare nella scrittura di questo romanzo?
Sicuramente i personaggi come Alfonso di Una Vita, l’Emilio di Senilità e Zeno de La coscienza di Zeno conosciuti come gli inetti di Italo Svevo. Ma il loro esser “ineptus” (inadatti all’esistenza) è forse il resoconto letterario di una nevrosi esistenziale. L’inettitudine organica de “I dormienti” invece è la manifestazione nel non capire come vivere in una realtà a cui i personaggi si sentono estranei. Sono anti-eroi che diventano espressione di una coscienza esistenziale ove I sentimenti vengono anch’essi tutti rarefatti e rimandati al loro ricordo. Anche l’amicizia diventa allora solo pretesto per non rimanere soli, per esser complici di un sistema succube e sonnolento del non-agire.
Altro autore prediletto è Pirandello e del suo Sei personaggi in cerca d’autore, con la sua tecnica teatrale di teatro nel teatro per spogliare i suoi personaggi della loro identità di attori trasformandoli in spettatori di un dramma borghese, “mescolando e fondendo la realtà con la finzione”.
Qual è stato, se c’è stato, il più grande ostacolo che ha dovuto affrontare durante la scrittura del suo libro?
Il tempo o meglio il poco tempo che avevo a disposizione per scrivere, anche per via dello scorrere veloce dei miei anni, vista l’età. Dopo una prima versione non completata in quell’estate di tanti anni fa, il manoscritto è rimasto fermo nei cassetti per anni, per timore, per mancanza di fiducia nel risultato. Chissà? Finché, sollecitato da Rita, la mia compagna, che l’aveva ritrovato tra le scartoffie, l’ho ripreso in mano e nei momenti di riposo dal lavoro di pubblicitario (dopo tanti sabati, domeniche e vari festivi, giorni e notti, passati quasi in trance), l’ho portato alla conclusione.
Ringraziamo Giovanni Figuera per averci concesso questa intervista e averci parlato del tuo nuovo libro “I dormienti”. Siamo rimasti molto colpiti dalle sue parole e siamo sicuri che il suo libro sarà un successo! A presto con la prossima intervista.