GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: Larspel, ovvero di Magia e Oscura Fine – Stefano Centritto

Benvenuti al blog del Gruppo Albatros, dove oggi abbiamo il piacere di ospitare Stefano Centritto, autore del coinvolgente romanzo fantasy “Larspel, ovvero di Magia e Oscura Fine”. In questa storia densa di mistero e pathos, Stefano Centritto ci trasporta in un mondo sospeso tra la realtà e l’incubo, dove la magia si intreccia con le ombre di un passato tragico e la lotta per la sopravvivenza si fa simbolo di una più ampia riflessione sulla vita, la morte e il significato del sacrificio. Attraverso le avventure di Keane, un giovane eroe catapultato in una Anethèia desolata e incomprensibile, l’autore ci offre un viaggio epico e commovente, capace di toccare corde profonde nell’animo di ogni lettore. Oggi, esploreremo insieme a lui le ispirazioni, i temi e le sfide che hanno dato vita a questa straordinaria opera.

“Larspel, ovvero di Magia e Oscura Fine” è un’opera che colpisce per la sua atmosfera cupa e misteriosa. Da dove nasce l’ispirazione per la creazione di Anethèia e per i personaggi che la abitano?

Larspel nasce dal mio amore per il fantasy, dalla passione del bambino che ero che guardava e riguardava La Bella Ad­dormentata nel Bosco e il mitico lungometraggio de Il Signore degli Anelli del 1978 e che scopriva, per caso, il capolavoro stesso del Prof. Tolkien nella libreria di casa. Nasce dall’appassionata frequentazione della letteratura fantasy italiana e internazionale, dai lunghi anni di arti marziali, da quei trekking e da quelle avventure speleologiche e da quei viaggi vissuti sempre con un occhio sul sentiero su cui camminavo e un altro sul mondo che immaginavo.  E nasce dal regalo che mi fece il mio miglior amico di sempre, Dungeons&Dragons, il singolo regalo che, più di ogni altro, ha influenzato la mia adolescenza e, in ultima battuta, la scrittura di questo libro. La mia adolescenza, anni di letture e riletture di quei romanzi nelle cui storie mi perdevo, nelle cui storie immaginavo ed immaginavo di trovarmi e di esserne l’eroe. Anni costellati da quei piccoli “gesti fantasy” nella vita di tutti i giorni che un po’ mi mettevano in connessione con quei libri, che mi illudevano di assomigliare a quegli eroi, come le avventure con gli amici ad esplorare i boschi e i ruscelli intorno casa, i duelli con le spade di legno, le arti marziali. In quegli anni, quello che sarebbe diventato il mondo di Anethèia prendeva vita nelle partite di Dungeons&Dragons, la realtà quotidiana stessa diventava spunto per avventure di Dungeons&Dragons sotto forma delle cose più disparate, per esempio le armi che scolpivo nel legno e che divenivano manufatti magici del gioco. Oppure persone della vita vera che, a loro insaputa, diventavano personaggi fantasy. Un vecchio zio cieco, il Prof. Alfredo Carlone, che narrava tante storie a tavola durante i pranzi di famiglia e che è bardo e cantastorie anche del mio libro. Ma anche il falegname Nunzio, conosciuto a 14 anni quando, dovendo aiutare la mia famiglia per sopraggiunti problemi lavorativi ed economici, lavorai in falegnameria durante l’estate: copia un po’ più bruttarella di Bud Spencer di 1m e 90, con un po’ di riporto sull’iniziale stempiatura e un orrendo monociglio, che se ne stava lì alla pialla a bestemmiare, e tanto, e a storpiare “La Guerra di Piero” di De André a suo abuso e consumo. “Fino a che tu non lo vedrai esangue, spaccagli il culo e bevi il suo sangue!”, così cantava. L’effetto che ebbe quel gigante sullo smilzo quattordicenne che ero fu, semplicemente, di amore a prima vista. Il vero Nunzio morì pochi anni dopo per gli effetti dell’alcol, il suo personale demone. Il mio Nunzio, in suo onore, sopravvisse e divenne un cacciatore di non-morti interpretato nel gioco da mio fratello Andrea e, solo successivamente, un personaggio del mio libro, uno dei personaggi a cui più sono affezionato…

Il tema del trauma è centrale nel romanzo, sia per i protagonisti che per il giovane Keane. Come hai affrontato la rappresentazione del trauma e in che modo pensi che questo tema si connetta alla dimensione fantastica del racconto?

Al di là della trama fantasy in sé, le tematiche principali del mio libro sono sicuramente il trauma psicologico e la sofferenza emotiva da un lato e, dall’altro, il rapporto con i sogni e con la fantasia, tematiche che sono state imperanti anche nella mia vita e strettamente legate tra di loro. La verità è che, per come è nato e si è sviluppato, questo libro è stato così tanto della mia vita, anche quando non avevo idea che avrei mai scritto un libro. A margine della storia di Larspel e Keane, attraverso alcuni espedienti letterari, questo romanzo svela tanto di me: il rapporto travagliato con la mia interiorità, i miei sogni e speranze ma anche la mia sofferenza passata, il mio senso di inadeguatezza, la depressione che ho avuto a 19 anni, la psicoterapia di 10 anni dopo, la stessa sofferenza psicologica e il percorso di guarigione di una persona a me tanto cara. Ciò che mi ha a lungo caratterizzato oggi viene definita da psicologi e psichiatri “Sindrome da Fantasia Compulsiva” o “Maladaptive Day-Dreaming”, ovvero un disfunzionale ed eccessivo sognare ad occhi aperti per sfuggire in qualche modo dalla realtà. Non ne ho avuto di certo una forma grave, non avevo sicuramente un isolamento sociale, tutt’altro, non erano compromesse le mie capacità di relazione o scolastiche o sportive, ma di sicuro è qualcosa che mi ha caratterizzato a lungo. Come detto, quando ero piccolo, leggevo un romanzo e immaginavo di vivere le avventure descritte, di essere l’eroe di quella storia. Ma non le fantasticavo semplicemente e solo durante i minuti di lettura: immaginavo, e immaginavo tanto, dedicando spesso momenti della mia giornata a tale attività. Durante le mie camminate solitarie intorno casa, con un occhio osservavo il bosco e con l’altro immaginavo di vivere in un mondo fantasy, nella Terra di Mezzo, a Hogwarts o in quella che sarebbe diventata Anethèia nel mio libro, di trovare orchi o elfi, di sentir bussare alla porta, in pieno stile dello Hobbit, e di ricevere una visita di Gandalf e 13 nani e di come sarebbe, quindi, cambiata la mia vita. La notte, ad occhi chiusi, prima di dormire, mi tuffavo volontariamente a immaginare e vivere una delle avventure di cui leggevo, “mi facevo un film” come si suol dire, scegliendo lo scenario e l’equipaggiamento di quella sera, continuando magari l’avventura immaginata la sera prima: una sorta di camomilla fantasy che per un quarto d’ora mi accompagnava nel sonno. Ed era un esercizio bello e piacevole che nutriva profondamente la mia fantasia e la capacità di creare storie e dettava e influenzava anche tanto della mia vita “reale”: da queste letture e da questi sogni ad occhi aperti nasceva la passione per le arti marziali e le armi bianche e le escursioni e la speleologia. In fondo, arti marziali ed armi bianche ed escursioni e speleologia erano come piccoli gesti e vissuti fantasy, erano come piccole scintille, nella mia vita reale, di quelle fiamme fantastiche che immaginavo, un modo per avvicinare il mio sé reale a quel sé immaginario i cui panni vestivo nei miei sogni ad occhi aperti. Questa fantasia “bella e spiccata” da un lato ma disfunzionale e compulsiva dall’altro, si accompagnava ad un mio vissuto di inadeguatezza non troppo sommerso, ad una mia scarsa autostima e a un’incapacità di mostrarmi per davvero e senza vergogna, alla difficoltà di affermare cosa amassi e cosa volessi. Al sentirmi inadeguato, al sentirmi “non abbastanza”: non abbastanza da piacere, non abbastanza da essere aiutato o abbracciato o consolato. E non era facile piacere alle ragazze se non riuscivo a piacere del tutto a me stesso. In confronto a questi sogni ad occhi aperti, la vita quotidiana appariva spesso, di conseguenza, più misera, noiosa, mediocre. Tutto questo significò che la distanza tra la mia vita reale e il mondo immaginario era incolmabile, che la distanza tra il mio sé reale ed il sé immaginario e ideale, l’irraggiungibile alter-ego di queste pagine… quella distanza era incolmabile e, poiché incolmabile, quella distanza si chiamava sofferenza. A 19 anni ebbi una depressione caratterizzata da insistenti pensieri intrusivi che non mi permettevano di addormentarmi. Non ci riuscivo, la mia mente non si placava, non smetteva di mitragliarmi con pensieri ed immagini e suoni intrusivi. Quell’esercizio volontario e controllato di fuga nella fantasia che mi aveva accompagnato per anni sembrava che mi si fosse ritorto contro. Mi spaventai a morte, credetti che sarei diventato pazzo e che, alla fine, mi sarei suicidato. E’ stato semplicemente orrendo. Oggi, da medico, prescriverei al volo psicoterapia e un antidepressivo al ragazzo che ero, ma purtroppo non parlavo dei miei problemi, fingevo di stare bene, e non era facile per chi mi era intorno comprendere davvero l’entità di quanto mi stesse succedendo. Sono riuscito ad uscirne, a stento, con l’aiuto della mia famiglia, della mia ragazza e degli amici e, per quanto possa sembrare strano, con le arti marziali e con la lenta respirazione diaframmatica e la meditazione imparate nel karate. Sono riuscito ad uscirne, ma per 10 anni mi sono portato dietro gli esiti di quella prima notte di paura: la paura della grande paura provata quella notte, l’ipocondria, i pensieri intrusivi ad ogni addormentamento per 10 anni. Piano piano, tuttavia, erano diventati come miei “vecchi amici dell’addormentamento” poiché avevo imparato a sorridere di quei pensieri e dei problemi, a sorridere di quella paura, avevo imparato a placarli e a lasciarli andare e a “respirare via” quei pensieri intrusivi con la respirazione diaframmatica lenta e profonda e la meditazione. Avevo imparato a non tenermi nulla dentro, a parlare con gli altri, a raccontare di me. A 27 anni ripresi in mano le poche pagine di Larspel scritte a 19 anni e decisi che avrei portato a compimento quella storia, fino alla fine. A 29 anni, dieci anni dopo la mia depressione, mi convinsi ad andare in psicoterapia. Scoprii davvero tanto di me, di ciò che mi era successo, di come affrontarlo, di ciò che stavo scrivendo e del perché lo stavo scrivendo. E così, via via che la consapevolezza di me stesso si consolidava, via via che anche altri miei cari affrontavano la mia stessa malattia della felicità, la mia necessità di esplorare il carattere dei miei personaggi cresceva, la necessità di dare spessore alla loro storia e alla loro sofferenza si imponeva, poiché mi sembrava di far loro un torto nel non descrivere adeguatamente cosa avessero davvero dentro e cosa li avesse portati a quelle scelte. Ed è così che i personaggi del mio libro, almeno ai miei occhi, sono diventati “poco personaggi” e “molto più persone”, sfuggendo assolutamente ai canoni classici del fantasy. Per quanto io sia per sempre debitore del Prof. Tolkien, il mio Re degli Elfi o le mie principesse non sono assolutamente entità superiori, sovraumane, di granitiche certezze ed esemplari virtù. Tutt’altro: sono colmi di chiaroscuri, sono sofferenti e traumatizzati, sono colpevoli e spesso ben poco virtuosi.

La tua storia intreccia magia, vendetta, amore e morte in un mix che cattura l’attenzione del lettore. Quali sono state le principali sfide nella costruzione di una trama così complessa e articolata?

Per quello che vi ho raccontato, con un passato come il mio, non è stato troppo difficile creare il mondo di Anethèia, intrecciare storia e amore, vendetta e morte: da appassionato lettore, da vecchio Dungeon Master e, soprattutto, da disfunzionale-sognatore-vagamente-compulsivo, ero in qualche modo abituato a farlo, ero piuttosto avvezzo a percorrere quei boschi della fantasia. La vera sfida, per me, è stata l’improvvisarmi a scrivere un romanzo di 800 pagine coerente, spero avvincente, cercando di creare e mantenere un ritmo, senza aver mai scritto neanche un racconto breve. Larspel non è stato semplicemente il mio romanzo d’esordio, ma il mio primo, vero balzo nel mondo della letteratura: venivo da studi scientifici liceali e universitari, è la mia unica maestra è stata la sola lettura di tanti libri. Sono stati necessari dieci anni per scrivere questo libro e trovare il coraggio di sottoporlo allo sguardo di altri, e in questi anni sono cambiato, e tanto. La psicoterapia, la scrittura, la sofferenza di una persona a me tanto cara mi hanno cambiato: ora sono diverso dal ragazzo che ero, tanto è stato risolto e tanta sofferenza è svanita. Non è stato semplice, ma ho cercato di preservare nel libro il sentire di quell’adolescente sofferente per non tradire quell’adolescente, i pensieri dello “Stefano ventisettenne” che aveva deciso di scrivere questo libro senza modificarli sulla base della persona che sono adesso. È stato difficile, è significato costringermi a tornare indietro per sentire di nuovo riverberare in me quella sofferenza, quel senso di inadeguatezza. È significato costringere ciò che ero a rivelarsi, attraverso l’inchiostro, nel vissuto nei miei personaggi e in quelle pagine autobiografiche del libro. Ma è stato anche bello rivedermi, ricordare e riscoprire che in quegli anni, come cantava Davide Van De Sfroos, avevamo in tasca la Magia senza neanche sapere di averla.

La figura del viandante dai poteri misteriosi sembra essere cruciale per lo sviluppo della vicenda. Puoi dirci di più su questo personaggio e sul suo ruolo nella storia di Keane?

Lo Stregone Larspel è, insieme al mezz’elfo Keane, il vero protagonista del libro. È il personaggio che dà il titolo all’intera opera, la cui essenza più intima è racchiusa nel sottotitolo stesso del romanzo, “ovvero di Magia e Oscura Fine”. Lo Stregone Larspel è l’antieroe, è il fanciullo traumatizzato che, a differenza di Keane, non ha trovato nella sua vita di orfano una figura paterna adottiva buona ma solo inganno e malvagità finemente mascherati. È il bambino innocente che, per sopravvivere, ha ucciso se stesso per farsi assassino e vendicatore. Larspel chiede a Keane di aiutarlo, ma il ragazzo non vorrebbe restare con lo Stregone, vorrebbe fuggire: lo teme, odia la sua incapacità di comunicare, i suoi scatti d’ira, il modo attraverso cui manipola gli altri con le sue menzogne, la malvagità del suo animo, la crudeltà dei suoi gesti, il suo misterioso passato, ma più cerca di fuggire più sogni capricciosi e rivelatori lo intrappolano e avvincono alla vendetta del suo compagno. Keane è terrorizzato dalla sconosciuta volontà, Divinità o Destino che sia, che lo lega indissolubilmente a quell’oscuro personaggio, che lo costringe ad assistere al suo passato, ad essere testimone di come il fanciullo innocente sia diventato assassino. Larspel è incapace di chiedere aiuto senza promettere morte, non sa lasciarsi andare all’amicizia e all’amore per il timore di essere nuovamente ferito, è incapace di elevarsi al di sopra del mostro in cui l’hanno trasformato. Lo Stregone sa di aver bisogno del ragazzo, ma quanto più teme di perderlo tanto più i suoi gesti sono aggressivi e incomprensibili. Keane lo segue perché costretto, lo segue perché viene ferito e minacciato dallo Stregone. Lo segue, infine, perché sceglie di seguirlo, perché scopre in sé una sconosciuta pietà per il fanciullo innocente che Larspel era e che lui stesso era, l’unica differenza tra i due il padre-maestro incontrato sul loro cammino.

Oltre all’avventura e al fantasy, il tuo libro tocca anche temi filosofici, come il rapporto tra felicità e limitatezza della vita umana. Quale messaggio speri che i lettori portino con sé dopo aver concluso il viaggio in Anethèia?

Mi affascina molto il concetto di felicità espresso dalla grecità classica con il termine di “eudaimonia”, ovvero la buona realizzazione del proprio demone. La prima volta che ho sentito enunciare questo concetto è stato anni fa dal grande Prof. Umberto Galimberti, una rivelazione che mi ha colpito così tanto da incidere profondamente su tante scelte della mia vita. In ognuno di noi c’è un daimon, un demone buono, uno spirito guida, un destino unico e irripetibile. Se si impara a conoscere se stessi, i propri pregi e difetti, se si conosce la propria virtù e ciò che si è nati per essere e la si fa fiorire nella giusta misura, allora si può, come diceva anche Nietzsche, “diventare ciò che si è”. Diventare ciò che si è e conquistare l’eudaimonia, ovvero l’unico modo per raggiungere una felicità duratura. E, al di là della gioia e della realizzazione che un tale traguardo può donare nella propria vita, il conoscere e diventare ciò che intimamente si è, il far fiorire il proprio daimon, serve ad accompagnarci nel nostro percorso di creature mortali, a farci incontrare la nostra morte, se non felici, ma almeno soddisfatti di come abbiamo vissuti. Se non felici, quantomeno sereni. Un altro tema per me prezioso è il giusto e sano rapporto tra il proprio mondo esteriore e la propria interiorità, la propria immaginazione e fantasia. In una delle sue lettere il Prof. Tolkien diceva che “Solo chi è profondamente innamorato della realtà può usare bene la fantasia”. Alla luce del mio pregresso vissuto psicologico traumatico e della disfunzionale fuga nella mia fantasia per sfuggire in qualche modo ai problemi della mia adolescenza, trovo estremamente importante dare dignità al proprio mondo interiore, alla propria fantasia, al “mondo secondario” come diceva il Prof. Tolkien, anche se non è possibile mostrarlo a nessuno, anche se non è possibile fotografarlo, migliorarlo con un filtro e presentarlo al mondo con un bel post di Instagram. La propria interiorità va nutrita e coltivata (libri, rapporti umani, educazione emotiva, una sana solitudine quando ricercata) e va ascoltata se sofferente, ammettendo i propri limiti e chiedendo aiuto se necessario poiché, se non lo facciamo, se non la curiamo perché vogliamo convincerci che sia inesistente o che chiedere aiuto sia da deboli, il conto da pagare sarà salato. La nostra dimensione interiore esiste, anche se non la si può mostrare sui social, ed è tanto vera ed importante quanto la nostra dimensione esteriore. Quello della nostra interiorità è un viaggio che va fatto, un viaggio che dura una vita.

Ringraziamo Stefano Centritto per averci accompagnato in questo affascinante viaggio attraverso i segreti di “Larspel, ovvero di Magia e Oscura Fine”. Le sue riflessioni ci hanno offerto una nuova prospettiva sul fantasy, rivelandone la capacità di affrontare tematiche profonde e universali attraverso la lente del fantastico. Siamo certi che questo romanzo saprà conquistare i lettori, non solo per la sua trama avvincente e i suoi personaggi indimenticabili, ma anche per la ricchezza di significati che esso racchiude. Invitiamo tutti a immergersi nel mondo di Anethèia, dove ogni pagina è un passo verso la scoperta di sé e dell’altro. Grazie per essere stati con noi e continuate a seguirci per nuove interviste e approfondimenti.

Lascia un commento