Oggi abbiamo il piacere di ospitare sul blog del Gruppo Albatros Nicola Mario Ippoliti, autore del libro “Il magnifico inganno. Un viaggio storico nel capitalismo moderno”. In quest’opera, Ippoliti ci guida attraverso le complesse dinamiche del capitalismo contemporaneo, esplorando le radici storiche e ideologiche che hanno modellato il nostro presente economico. Partendo dalla crisi finanziaria del 2008, l’autore affronta il dibattito, tutt’altro che superato, tra liberisti e post-keynesiani, offrendo un’analisi approfondita delle correnti di pensiero che hanno segnato il secolo scorso e che continuano a influenzare il nostro futuro. Con questo libro, Ippoliti non solo racconta le vicende del passato, ma si avventura anche in un’interpretazione critica degli eventi attuali, proponendo ipotesi sul cammino che ci attende. Attraverso cinque domande, cercheremo di scoprire le motivazioni, le riflessioni e le esperienze che hanno portato l’autore alla stesura di quest’opera così ambiziosa.
Nel suo libro “Il magnifico inganno”, lei esplora le origini storiche del capitalismo moderno. Qual è stato l’elemento scatenante che l’ha spinta a intraprendere questo viaggio attraverso le radici del sistema economico contemporaneo?
Da tempo, il dibattito economico rotea su argomenti, tematiche e dispute teoriche che sono le stesse che hanno animato il mondo scientifico nel corso del 1900 e che sembravano ormai superate ed archiviate dalla Storia ed invece, oggi, a seguito della crisi del 2009 e dei suoi effetti su tutta l’economia mondiale e sul nostro Paese, tali dispute si sono riaccese con maggiore veemenza ed una intensità ed ampiezza che ha travalicato il mondo accademico ed investito buona parte della società civile, di solito poco interessata a queste diatribe. Da un lato abbiamo gli esponenti del nuovo liberismo economico che sostengono che il mercato lasciato libero di agire, senza freni e condizionamenti di sorta, può risolvere tutto, crea efficienza e benessere, che il ruolo dello Stato deve essere minimo e comunque non deve intervenire in economia, che dovrebbe solo tagliare le tasse, ridurre la spesa pubblica e garantire servizi minimi indispensabili; che i lavoratori dovrebbero accettare riduzioni del proprio salario per far aumentare l’occupazione; che bisogna accrescere il risparmio e abbassare il tasso d’interesse per favorire gli investimenti degli imprenditori e così via. Dall’altro lato della “barricata” troviamo gli economisti post-keynesiani, che all’opposto dei primi, affermano che la colpa principale della crisi sia proprio l’effetto del libero mercato, senza freni e senza controlli, che ha prodotto gravi distorsioni nel paese e nell’economia e che lo Stato ha il dovere d’intervenire regolando lo stesso e svolgendo un ruolo attivo di politica economica, attraverso aumenti di spesa per investimenti ed in favore del reddito dei cittadini. Questi interventi vanno nella direzione di aumentare la domanda aggregata per stimolare il consumo di beni e gli investimenti e determinare, così, un rapido percorso di crescita e sviluppo socio economico. Sostengono, altresì, che la riduzione dei salari non solo non fa aumentare l’occupazione ma addirittura producendo una contrazione della domanda e della capacità di spesa complessiva, lungi dal creare nuova occupazione, aggrava invece la crisi, che autoalimentandosi per gli effetti moltiplicativi sul reddito nazionale, innesca un circuito perverso dagli effetti devastanti non solo economici ma anche etici e sociali. Ma quando leggiamo frasi come “La lotta di classe esiste, è vero, ma è la mia classe, quella ricca, che sta facendo la guerra e stiamo vincendo noi” attribuita a Warren Buffet, il principe degli investitori di Wall Street, tra gli uomini più ricchi del pianeta, rimaniamo perplessi. Questa candida confessione rinnega l’assunto principale dei fautori dell’individualismo metodologico che ai concetti collettivi come “società”, “chiesa”, “popolo”, “classe”, “nazione” non corrisponde alcuna realtà o come afferma Luciano Pellicani: “essi sono una pura mitologia antropomorfica”, in opposizione a questa visione individualista, nell’ambito delle scienze sociali si colloca la corrente di pensiero dell’olismo metodologico per la quale termini come società, nazione, “sistema economico”, classi sociali, esistono: ad essi corrispondono effettive realtà, “senza le quali l’individuo non sussisterebbe” e l’analisi deve tendere alla ricerca di esse. Non riconoscere la società significa non riconoscere la cultura di un popolo. Essa è una comunità morale distinta da altre formatasi attraverso secolari esperienze di vita e di un sentire comune. In una parte del libro ho riportato che l’astuzia più grande, in questo paradigma economico, il modello economico dei bassi salari, che ci è stato imposto dalla coalizione di questi poteri forti dotati una forza d’urto eccezionale, che controllano l’informazione, il sistema accademico , che condiziona il potere politico, i policy makers e il sistema economico, è stata quella di capire: “… che in un modello di bassi salari il sostegno al consumo può venire solo dal credito” come ricorda un “ex banchiere centrale europeo” (La grande crisi, Il Sole 24 ore, pag. 34) e quindi via con il credito al consumo in tutti i modi, con tutte le salse, prestiti personali, prestiti ai pensionati, cessioni del quinto ecc. con il risultato di avere una classe lavoratrice già alienata e impoverita, anche indebitata, inerme ed incapace, quindi, di reagire alle vessazioni che il neoliberismo ed i suoi sacerdoti impongono. Il circolo magico “virtuoso” così è stato chiuso: il consumo necessario a garantire la ricchezza degli imprenditori avviene tutto a discapito della classe lavoratrice che deve accettare il peggioramento di tutte le condizioni di lavoro, le cosiddette riforme “strutturali”, senza battere ciglio, a testa bassa, pena la perdita del lavoro con tutte le conseguenze sulla sua condizione di indebitato: il neoschiavismo ottocentesco di ritorno, si palesa, così, in tutta la sua evidenza. Il duplice obiettivo della classe egemone è stato, dunque, conseguito: quello di avere una classe lavoratrice docile e remissiva e quello di incrementare la ricchezza da parte della classe dominante attraverso il “consumo forzoso a debito” della classe sottomessa. In Italia, a partire dagli anni Novanta (pacchetto Treu del 1997, legge Biagi del 2003, ecc.) è stata legalizzata una moltitudine di contratti atipici, tutti tesi a mascherare rapporti di lavoro dipendente e le tutele, sicuramente più costose, previste per questi tipi di prestazioni, al contempo si è creata una nuova figura sociale: l’homo instabilis (Rossana Guidi), il prototipo della precarietà e del “tirare a campare”, senza futuro e prospettive di vita, in ossequio alla religione della “società liquida” ed ai suoi precetti e dogmi
La crisi finanziaria del 2008 rappresenta un punto focale del suo libro. In che modo questo evento ha influenzato il dibattito tra liberisti e post-keynesiani, e perché ritiene che sia importante rievocare questo confronto oggi?
Senza entrare troppo nel merito della grave crisi, importata da oltre oceano, che si sviluppò in Europa ed in Italia dal 2010 (essa meriterebbe un libro a parte) che ha fatto tremare la costruzione della Unione Europea e la sua moneta, i cui interventi tardivi, inconsistenti, spesso negativi, hanno allarmato la comunità finanziaria fino a scatenare un violento attacco speculativo che aveva come obiettivo il disfacimento dell’euro : una moneta senza stato, con una banca centrale “zoppa”, come fu definita dall’economista Modigliani, incapace fino al luglio 2012 di sviluppare azioni efficaci in difesa della sua moneta. Infatti il Governatore Draghi solo il 23 luglio 2012, con grave ritardo rispetto all’inizio della crisi, pronunciò la famosa frase “… whatever it takes…” in difesa dell’euro, (in un linguaggio criptico significa che la BCE era pronta a contrastare, senza limite, ogni azione aggressiva contro la sua moneta facendo perdere soldi agli speculatori-scommettitori finanziari) che calmò i mercati finanziari, la speculazione e la scommessa sul crollo del sistema monetario dell’eurozona. La focalizzazione sulla crisi europea, di fatto, ha distolto l’attenzione mondiale dalla genesi e dalle responsabilità della grande crisi (che risiedono tutte oltre oceano con i mutui subprime), concentrando tutta l’attenzione sul “debito sovrano” di alcuni stati europei, con motivazioni che non avevano alcun fondamento economico. Alla Germania, secondo la Commissione Europea, la crisi di importazione Usa, è costata 297 miliardi di euro, ai quali si aggiungono altri miliardi per garanzie per un totale di 465 m. di, per salvare le proprie banche piene di titoli “tossici” d’oltreoceano… In questa grave turbolenza finanziaria, sono riemersi temi e diatribe, terreno di scontro dottrinario tra economisti neoclassici e keynesiani. Ad esempio, quello relativo alla formazione delle crisi economiche: gli economisti mainstream di matrice liberista riconoscono che le crisi, se scomposte in fattori primi, hanno un comune divisore, costituito dall’eccessiva accumulazione di debiti da parte di tutti gli agenti del sistema economico (stato, imprese, lavoratori-consumatori) ma riconoscono che l’indebitamento resta uno strumento fondamentale per il funzionamento del sistema capitalistico. Alcuni, però, sono giunti a supporre che sia il debito pubblico il vero «problema unificante» delle crisi finanziarie, senza alcun riscontro empirico a dimostrazione di queste tesi che, invece fanno ipotizzare esattamente il contrario. Ad esempio, la crisi dei mutui subprime del 2008, è stata causata da un eccesso di indebitamento privato (mutui subprime) e da una politica monetaria restrittiva operata dalle istituzioni. Solo l’intervento pubblico, poderoso e universale, è stato essenziale per evitare il crollo del sistema economico finanziario e la fine del capitalismo arrembante. Ma il costo del suo salvataggio è stato, molto, molto elevato, scaricato sui bilanci statali ed in definitiva sui contribuenti. Una tesi, affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso, proposta da due eminenti economisti Usa e sponsorizzata in Italia da alcuni economisti indigeni, nota nell’approccio economico dominante con il nome dell’austerità espansiva, sulla base di alcune ricerche empiriche (poi clamorosamente sconfessate), afferma che tagli di spesa o aumenti delle imposte, diretti a bloccare o ridurre il rapporto debito pubblico/Pil (prodotto interno lordo), possano spronare consumi e investimenti privati. Secondo questa teoria, gli effetti espansivi di queste politiche di austerità vengono ottenute dalle previsioni di un futuro abbassamento delle imposte, che comporterebbe un più elevato reddito permanente (reddito futuro atteso) tale da spingere gli agenti economici ad aumentare i consumi correnti. Questa analisi ha trovato terreno fertile nella situazione creatasi nel 2009 quando, i vincoli europei di bilancio pubblico, che impedivano l’uso della politica fiscale per stimolare l’economia e la politica monetaria centralizzata a livello europeo dalla BCE, hanno portato la classe dirigente a ritenere la teoria dell’austerità espansiva, come la soluzione dell’enigma (ed a nascondersi dietro essa): essa conciliava, infatti, forti riduzioni della spesa pubblica, il riequilibrio dei conti pubblici e la ripresa economica, tutto insieme, un vero rimedio universale dal potere taumaturgico. Un vero miracolo. Solo che, l’economia non è il mondo incantato di qualche bella favola nordica e, soprattutto, non ha il suo lieto fine, mentre la cruda e amara realtà quando si manifesta, distrugge ogni miraggio e tutte le fantasie e i miti edificati su esse. Ecco quello che scrisse, in quel periodo, il Nobel dell’economia Krugmann: “… gli austeri si sono impadroniti del lavoro accademico di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sostenendo che il risanamento dei conti pubblici, se focalizzato sui tagli alla spesa, porterebbe, …. all’espansione economica. Non era perché la carta era particolarmente convincente …. Ma A-A ha detto alla gente cosa volevano sentire, e se ne sono andati.”. La Troika, Fondo monetario internazionale (FMI), Commissione UE e BCE, spinte anche da questo substrato teorico, imposero severe condizioni per la concessione degli aiuti ai paesi in difficoltà: Portogallo e Grecia sottoscrissero il Memorandum of understanding, un combinato disposto di tagli e inasprimenti fiscali, con alcune misure essenziali anche sulle pensioni e gli stipendi pubblici. La dura realtà ha dimostrato severamente la fallacia di questa tesi che non aveva alcun fondamento scientifico né evidenza empirica: è stato un atto di macelleria sociale, anche premeditato, perché già nel 2010, in uno studio del FMI, si affermava: “L’idea che l’austerità fiscale possa stimolare la crescita nel breve periodo trova poca conferma nei dati. I consolidamenti fiscali, tipicamente, hanno effetti recessivi nel breve termine sull’attività economica, portando a minore output e maggiore disoccupazione”. Solo nel 2013 lo stesso FMI prese atto della situazione prodotta con queste politiche, e rilevò come i moltiplicatori fiscali durante la recessione erano maggiori di quelli stimati per il periodo pre-crisi: 1,5 invece che 0,5. (ovvero: una contrazione fiscale di 1 euro ha avuto un impatto recessivo di 1,5). Il risultato fu una perdita per mancata crescita nell’area euro, di oltre 5 mila miliardi di euro!
Nel suo percorso di ricerca, ha avuto modo di approfondire le figure chiave che hanno segnato il pensiero economico del Novecento. C’è qualche economista o pensatore che, più di altri, ha influenzato la sua visione del capitalismo?
Io preparai l’esame, (purtroppo alla fine degli anni ’80), di Economia politica II presso l’Università La Sapienza di Roma, facoltà di Economia e Commercio, su un libro di Augusto Graziani, che era il nostro docente, dal titolo Teoria economica -Macroeconomia edito nel 1981. Un testo eccezionale a mio modo di vedere, che ricostruiva in forma storica tutto l’evolversi del pensiero economico analizzando in forma scientifica e critica i contributi ed anche i collegamenti intellettuali che i più grandi economisti hanno apportato alla scienza economica. Nella rilettura e approfondimento che ho fatto per preparare Il Magnifico inganno, mi sono avvalso anche delle edizioni successive ed ho scoperto delle cose assolutamente inedite su alcuni economisti del Novecento assolutamente ignote, che hanno condizionato in negativo l’apporto teorico che questi studiosi hanno consegnato al pensiero economico contemporaneo. Mi riferisco all’opera di J.Maynard Keynes, economista inglese scomparso nel 1946 che sosteneva:”… un economista deve possedere una rara combinazione di doti: deve essere allo stesso tempo e in qualche misura matematico, storico, politico e filosofo; deve saper decifrare simboli e usare le parole, deve saper passare dall’astratto al concreto nello stesso processo mentale; deve saper studiare il presente alla luce del passato per gli scopi del futuro…” che considerava l’economia una scienza morale sociale in cui i giudizi di valore dovevano avere un ruolo determinante nel processo decisionale: per il suo pensiero tutto quello che andava in contrasto con i valori fondanti di una collettività, tutte le decisioni che potevano creare instabilità sociale di massa, frustrazione nelle persone, dovevano essere rigettate. Il pensiero economico di Keynes nella narrazione accademica, di solito, viene suddiviso in due momenti, il primo fino al 1930 caratterizzato dalla pubblicazione del Trattato sulla moneta , periodo in cui si sostiene che egli fosse un economista neoclassico, seguace di Marshall di cui era stato allievo e che solo la grande crisi del 1929 ed il perdurare della stessa, che aveva prodotto masse di disoccupati e grande instabilità sociale e soprattutto, l’inefficacia dei rimedi attuati lo abbiano spinto a rivedere le sue posizioni concettuali ed a scrivere, nel 1936, la Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta. L’opera del 1936 sarebbe, quindi, quella innovativa, quella dedicata alla depressione, mentre nel precedente periodo il pensiero economico sarebbe in linea con la tradizione marshalliana. “Questo modo di ricostruire lo sviluppo del pensiero di Keynes ha consentito di circoscrivere la portata delle sue innovazioni teoriche nell’ambito ristretto della crisi, ed ha reso facile la riconciliazione tra teoria neoclassica tradizionale e teoria keynesiana: la prima analizzerebbe il sistema economico in condizioni di normalità, mentre la seconda studierebbe il caso particolare della depressione. La teoria keynesiana sarebbe un caso particolare di quella neoclassica e fra le due non esisterebbe alcuna seria incompatibilità” come afferma Augusto Graziani, che contesta questa narrazione. Ma non solo, aggiungiamo noi, questo metodo ha consentito l’oblio di tutta l’opera precedente, semisconosciuta ai più, anche alle più rinomate enciclopedie universali. Ad esempio, se io digito la teoria dei prezzi monetari dei beni di consumo di Keynes nelle diverse enciclopedie universali, non ottengo alcun risultato utile. Questa teoria è sconosciuta. Se entriamo nel merito, la continuità logica delle due opere, è indissociabile. La Teoria Generale anche se ha una maggiore profondità intellettuale, un pensiero più raffinato e una maggiore eleganza espositiva rispetto al Trattato è, però, in una continuazione logica con la prima opera, la filosofia che ispira e gli assunti di base delle due opere, sono i medesimi:
– società divisa in classi in cui gli imprenditori-capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e dotati di mezzi finanziari potendo attingere alla creazione ex novo della moneta bancaria, si contrappongono ai lavoratori-consumatori che vendono lavoro salariato, in contrapposizione, quindi, alla concezione marshalliana di una società composta da operatori eguali e dell’economia come insieme di scambi tra tali soggetti;
– le due classi hanno obiettivi diversi: l’accumulazione della ricchezza i primi, il soddisfacimento dei bisogni gli altri;
– non esistenza di un interesse collettivo e generale della società, ma un rapporto conflittuale tra le due classi (come affermava anche A. Smith).
Nel Trattato, Keynes affronta il problema dell’instabilità del sistema economico di mercato e studia in profondità l’elemento che la genera, che sono gli investimenti, i quali subiscono in primis, l’influenza dei profitti per cui ogni aumento di questi determina un incremento degli impieghi e, come conseguenza di ciò, analizza la genesi e lo sviluppo dei profitti, dell’accumulazione di capitale, la formazione dei prezzi monetari e la distribuzione del reddito nazionale insieme all’altro tema che è quello della determinazione del livello di produzione e di occupazione connessa: i primi due, con maggiore intensità, sono approfonditi nel Trattato, mentre il terzo è analizzato con l’opera del 1936. Keynes sviluppa una duplice teoria dei prezzi: una per i beni di consumo ed una dei beni capitali. Per i primi differenzia due possibili livelli dei prezzi: quello di equilibrio, uguale al costo di produzione comprensivo dei redditi di tutti coloro che hanno contribuito alla produzione, in esso non è compreso l’extraprofitto; quello di mercato, definito dal gioco della domanda e dell’offerta. Gli imprenditori, in autonomia, fissano la quantità prodotta dei beni, ovvero l’offerta; i consumatori decidono quanto spendere del loro reddito per i beni e quanto risparmiare e sul mercato si determina il prezzo. Keynes cerca di studiare quando i due prezzi, quello di equilibrio e quello di mercato coincidono, ovvero in quali condizioni il mercato riesce a fissare un prezzo di equilibrio. Il Prezzo di equilibrio è pari al costo di produzione rappresentato dal rapporto tra salari e produttività del lavoro. Non esiste sovraprofitto. Il prezzo di mercato invece è quello che si determina realmente. Nella formula del prezzo, viene introdotta una seconda componente, di natura macroeconomica, data dal rapporto tra investimenti, risparmi e consumi per cui se gli investimenti superano il risparmio complessivo, si genera inflazione dei prezzi, nel caso contrario si determina deflazione. Nel libro io scrivo: “Questa formula di Keynes, abbastanza ignorata nel mondo accademico, invece è molto attuale e spiegherebbe quanto è accaduto nell’ambito dell’Eurozona dal 2012 al 2015 in cui si è determinata una situazione di sovrarisparmio (ovvero il risparmio supera gli investimenti), calcolata dall’economista Giorgio Gattei in 676 miliardi di euro nel 2015, e la deflazione che è imperversata nei paesi sotto l’ombrello della bce, fino all’inizio della crisi russo-ucraina, nonostante gli sforzi che la Banca centrale ha operato con gli interventi monetari sul mercato e gli acquisti di titoli”.
Uno degli aspetti più affascinanti del suo libro è l’uso del passato per comprendere il presente e prevedere il futuro. Quali sono, secondo lei, le lezioni più importanti che possiamo trarre dalla storia economica per affrontare le sfide del capitalismo odierno?
L’economia è una scienza sociale, ha a che fare con l’uomo nella sua accezione più ampia, con tutti i suoi limiti, contraddizioni, piccolezze, il suo comportamento è ripetitivo e quindi, prevedibile, Anche l’economia segue, certe regolarità, ma la cosa che va studiata sono gli interventi che le istituzioni hanno attuato e possono attuare, per risolvere le crisi, ed un esame storico di quelle effettuate nel passato, compresi gli sconfinamenti di autorità, civili, religiose, giudiziarie nel mondo dell’economia. In alcuni casi delle vere e proprie scorribande. Ad esempio, nel 1723 la Corte del Middlesex condannò il libro La favola delle api di B. Mandeville come offensiva della morale pubblica, perché sosteneva che la prosperità di una collettività venisse accresciuta mediante la spesa piuttosto che attraverso il risparmio. Lo scandalo consisteva nel fatto che la civiltà implicava lo sviluppo di propensioni viziose… Il ‘povero’ Mandeville sosteneva, altresì, la grande arte di rendere una nazione fiorente stava nel dare a ciascuno la possibilità d’essere occupato e che dovesse essere compito del Governo di promuovere arti, mestieri e manifatture… quanta lo spirito umano può inventare” (Keynes cap. 23 Teoria generale). Un altro episodio storico, tra il serio ed il faceto, ce lo ricorda l’economista J.C.Sismonde de Sismondi, nello scritto del 1801 Tableau de l’agricolture Toscane, riguardo al problema dell’indebitamento perenne dei contadini di Lucca ed alla creazione di una banca che doveva avere lo scopo di evitare l’esposizione diretta di questi verso i loro padroni, scriveva: “… questa banca non fa che creare illusioni ai contadini di Lucca; sebbene i padroni che l’hanno istituita vi trovino i loro vantaggi, essa è più utile al Governo, che a suo mezzo tiene l’intera popolazione delle campagne in uno stato di dipendenza assoluta, si assicura ,così la sua obbedienza non soltanto col timore ma anche con l’affetto”. Questo aneddoto ricorda il titolo del mio libro Il magnifico Inganno e la sua motivazione, che è spiegata nel libro nel capitolo dedicato. Come non ricordare, poi, i grandi conflitti che F.D. Roosevelt ebbe con la Corte Suprema Usa, i cui membri, nominati dai conservatori cercarono, in tutti i modi, nel rispetto dei dogmi liberisti di non intervento dello Stato nell’economia, di ostacolare il New Deal e solo dopo molte battaglie giudiziarie riuscì, anche grazie al pensionamento di alcuni giudici ed alla loro sostituzione con altri più progressisti, a vincere le resistenze di questo ente giurisdizionale, interprete autentico della costituzionalità di leggi statali e federali. L’intervento pubblico, invece quando è illuminato e suffragato da esperienze vissute è fondamentale per assicurare crescita economica e rispetto dei diritti sociali, ma questo deve essere completo, deve adottare misure idonee allo scopo, anche con il recupero e sviluppo di una industria pubblica di supporto a quella privata. L’allargamento delle funzioni di Governo non è un’usurpazione ai danni dell’individualismo è la condizione per un funzionamento efficiente dell’iniziativa individuale, come ci ricorda Keynes, per il quale questa è l’unica strada per raggiungere la piena occupazione dei fattori produttivi e dei lavoratori ovvero il consolidamento e sviluppo di un’industria sotto controllo statale, un po’ come era l’IRI prima della grande svendita degli anni 80/90. Affiancare ad un’efficiente industria privata, una florida impresa pubblica in un connubio sinergico e strategico che miscela efficienza e stabilità, con la composizione armonica degli interessi di tutte le componenti la catena del valore, per creare un corpo organico con una propria peculiare missione da svolgere, dominata da obiettivi tipicamente aziendali, ma esercitati in un’ottica sociale ed etica, appare oggi una necessità inderogabile. Nel mio libro ho fatto dei ritratti di alcuni personaggi che sono stati, per me, i veri artefici della rinascita e sviluppo dell’Italia post bellica: Adriano Olivetti come manager privato, Enrico Mattei come il prototipo del dirigente pubblico, Aldo Moro come il politico che ha sfidato i poteri forti, sacrificato all’altare della ricerca dell’indipendenza. In fondo la Storia è fatta da uomini, nel bene e nel male. Ma ho tracciato, anche ritratti di imprenditori di successo che mandano un messaggio nuovo, un nuovo umanesimo, che rispettano il lavoro dell’uomo, per i quali gli stipendi che pagano ai propri dipendenti non sono voci di costo ma investimenti per l’azienda, investimenti in risorse umane, che considerano il lavoro un completamento della loro personalità, che riescono a fare interiorizzare la propria azienda ai propri dipendenti che riescono così ad esprimere tutto il loro potenziale basato sull’esperienza, sfruttando quel poco di genialità che è presente in tutti noi. Leonardo Del Vecchio, Brunello Cucinelli, I fratelli Caucci rappresentano per me il futuro dell’imprenditoria del XXI secolo.
“Il magnifico inganno” propone una lettura critica del capitalismo, ma offre anche spunti su possibili soluzioni per il futuro. Qual è il messaggio principale che vorrebbe lasciare ai suoi lettori?
Un libro così complesso, variegato, dopo un esame attento e completo, vuole mandare vari messaggi, tutti molto importanti. Il primo che sgorga naturalmente riguarda la pace. Il magnifico inganno è un libro soprattutto di pace. La mia educazione la mia ricerca fin da giovane è sempre stata orientata verso l’analisi interiore. A vent’anni leggevo, nello stesso periodo in cui Steve Jobs, bloccato da una dissenteria in un paesino ai piedi dell’Himalaia, il libro di Yogananda “Autobiografia di uno yogi” ed il messaggio immortale che trasmetteva, che la violenza è la morte dell’uomo. Steve Jobs aveva scaricato un solo libro nel suo i-pad, appunto, l’Autobiografia di uno yogi, che leggeva una volta all’anno: 40 volte in tutto, prima della sua prematura scomparsa. Ho praticato arti marziali per tutta la vita, prima come atleta, poi come maestro di Judo, per riuscire a conseguire l’equilibrio psico fisico che questa pratica aiuta ad ottenere. Oggi vedere filmati di camion pieni di cadaveri di giovani nel pieno della loro giovinezza, scaricati con ruspe meccaniche in fosse comuni, bambini orfani di entrambi i genitori abbandonati che chiedono disperatamente aiuto, ragazze vittime di violenze indicibili, vecchi abbandonati e piangenti sulle rovine della loro casa distrutta da bombe: un senso di disgusto mi pervade profondamente, aggravato anche da una sensazione d’impotenza di non potere fare nulla. Tutto ciò non è degno della civiltà, soprattutto perché le cause remote di questo stato di cose, credo siano ben descritte nel mio libro. Più volte, nel mio libro, ho richiamato le parole di Yogananda, compresa l’ultima profezia: “preghiamo per l’armonia tra le nazioni, affinchè possano procedere fianco a fianco verso una civiltà giusta e nuova… un giorno tutte le frontiere cadranno, la terra intera diverrà la nostra patria ed un’assemblea internazionale distribuirà equamente le risorse mondiali a seconda delle necessità dei popoli.” Quale messaggio inviare? Nell’eterna, titanica battaglia tra politica, economia ed i rappresentanti di forti interessi consolidati nella Società civile, che nei libri di storia è raramente rappresentata, la Politica, quella vera, quella che scrive la Storia e non la cronaca, quella che discende dalla filosofia morale, deve tornare ad avere il sopravvento su tutte le forme che incidono nella vita relazionale, nell’immaginario collettivo, nell’assetto socio-economico, e ciò è possibile solo se il popolo prende coscienza di sé, si informa, riesce a farsi un’opinione. Anche perché altre sfide sono all’orizzonte, la quarta rivoluzione industriale, il riequilibrio dei rapporti di forza pubblico-privato e lavoro-capitale ed affrontare per tempo le problematiche della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale, quella delle tecnologie convergenti delle sinergie tra robotica, genomica, intelligenza artificiale e neuroscienza, con i robot di terza generazione super intelligenti che potranno sostituire il lavoro umano… con il lavoratore che non sarà più centrale nel sistema economico”, come afferma Stefano Zamagni, e l’aumento inevitabile delle disuguaglianze sociali. Ma l’obiettivo rimane sempre quello di risolvere il problema politico dell’umanità – come diceva Keynes – ovvero la ricerca di un equilibrio dinamico tra l’efficienza, la giustizia e la libertà che sono i grandi obiettivi delle società moderne.
Grazie mille, Nicola Mario Ippoliti, per aver condiviso con noi le sue riflessioni e il percorso che l’ha portata alla stesura di “Il magnifico inganno”. Le sue analisi e le sue prospettive ci offrono uno strumento prezioso per comprendere meglio le dinamiche del capitalismo moderno e ci invitano a riflettere su come possiamo affrontare le sfide economiche future. Siamo certi che il suo libro sarà un’importante fonte di ispirazione e conoscenza per i lettori che vogliono approfondire questo argomento così cruciale. Auguriamo a lei e al suo libro il successo che merita.
