Benvenuti lettori del blog del Gruppo Albatros, oggi siamo felici di accogliere un autore la cui opera offre uno sguardo penetrante sulla condizione umana e sociale. Nel suo libro “De pauperitate note”, Francesco M. Della Ciana ci conduce in un viaggio attraverso le sfumature della povertà e della ricchezza, sottolineando la persistenza di certe mentalità attraverso i secoli. È un piacere avere con noi l’autore stesso per approfondire i temi trattati nel suo lavoro.
Nel suo libro, lei parla della persistenza di certe mentalità legate alla condizione di povertà nel corso dei secoli. Quali sono, secondo lei, le principali caratteristiche di questa mentalità e quali sono le sue radici storiche?
Nei trascorsi storici non sono mai mancati come non mancano i pochi che guidavano comandavano dirigevano indirizzavano, i tanti che eseguivano, senza capacità di scelte autonome. Un tempo, tali condizioni di sudditanza derivavano da diversi fattori, come l’assolutismo più o meno dispotico; quindi, l’accentramento dei poteri e la mancata democratizzazione nella gestione sociale, le diffuse ignoranze, le superstizioni, gli empirismi, le povertà non solo economiche, ma soprattutto la mancanza di conoscenze per mancati studi portava a stati di minorità che non permettevano autonome visioni del mondo e conseguenti decisionismi individuali. Ma ieri come nell’odierno, le povertà erano e sono d’ordine economico e culturale. Molte sono state le lotte per raggiungere livelli di apprendimento tali che consentissero capacità critiche nei confronti di quanto circondasse individui, resi consapevoli delle loro identità e delle loro finalità, proprio per la loro formazione. Dalle accademie per pochi alla democratizzazione enciclopedica sino alla rivoluzione informatica, che ha consentito l’approvvigionamento di dati, davvero qualcosa di inimmaginabile, con questioni aperte rispetto alla discutibilità dei servizi erogati, con evidenti conseguenze d’ordine educativo. Appare in tutta la sua evidenza quel che sta accadendo, un’ondata di innovazione tecnologica che, all’apparenza, anche nei fatti, ha condotto a preparazioni specifiche, a confronti, a crescite culturali, a dialoghi e sviluppo ma, in molti casi, si è rivelata, per interi popoli, tra le cause più evidenti, scatenanti una condizione di dipendenza mediatica, volta più all’informazione che alla formazione, da cui scaturiscono pensieri unici, con appiattimenti di adagiamento ideologico e livellamenti massificanti di standardizzazione forzata, senza rendercene conto. Si rimane inermi tra smart, sms e link, programmi televisivi trash, che entusiasmano, uniformano e schiavizzano, in una ridda di processi identitari collettivizzanti, umanamente devastanti. Tanti forse troppi, soprattutto giovani, si ritrovano in una sorta di sopore delle menti, che di sicuro serve a qualcuno per il dominio sulle masse. Non che sia un qualcosa di nuovo. Di certo, nuovi sono gli strumenti che hanno determinato tali regressioni, sofisticate macchinazioni comunicative, che annientano ardori intellettuali, desideri di crescita, volontà di cambiamento. Sembra che quasi tutti siano strafelici del niente incombente, come resi imbelli, indifesi e incapaci.
Una delle tesi centrali del suo libro sembra essere che la condizione di povertà sia più una questione di mentalità che di circostanze materiali. Potrebbe spiegarci meglio questo concetto e fornirci qualche esempio?
Come si diceva, in passati poi non troppo lontani, esser poveri significava trovarsi in situazioni di indigenza, in condizioni economiche, che non consentivano affermazioni sociali e crescite culturali. Con i materialismi storici, si pensava che gli uomini, una volta appagate le loro legittime aspirazioni al lavoro e ai consumi, avrebbero raggiunto i tanto agognati traguardi di democratiche certezze. Più che giusto e condivisibile. La libertà, l’equità, le democrazie sono al fondamento delle nostre società occidentali. Ma gli esseri umani hanno dei diritti che vanno ben al di là delle primarie concretezze. Le corse ai consumi sono state ben sperimentate analizzate discusse sceverate criticate accettate e soprattutto non hanno registrato significativi cambiamenti, neanche negli ultimi periodi. Ma perché individui possano sentirsi persone, dovrebbero attingere alle fonti inesauribili dei saperi e della spiritualità. Soltanto conoscenze e Fede possono distoglierli dalla massificazione, esaltando soggettivismo e originalità, creatività operose e individualismi costruttivi. Ai giorni nostri, sembra che le gabbie delle regole, dei comuni sentire abbiano determinato la narcotizzazione delle menti, per ingannevoli benesseri comunitari travestiti da democrazie, ma inibenti ogni forma di vitalità visionaria innovativa. Poi esser poveri, per dirla in romanesco, è più una questione di capocce che di saccocce, in quanto molti facoltosi rientrano nella schiera sempre più ampia di coloro che non si avvalgono delle proprie capacità critiche, anche perché spesso non possono avvalersene, essendone privi. Sono i risultati di recenti processi di stordimento mentali, derivanti dal diffondersi di processi mediatici rimbecillenti, di sicuro senza precedenti. Siamo immersi in una società dedita a un lavorio intenso, spesso insensato, per cui più hai e più vorresti; quindi, sei costretto ad impegnarti senza requie in circoli aberranti, ove il superfluo diventa necessità sociale ineludibile. È una povertà esistenziale, in cui si perdono identità e appartenenze culturali. Si pensa soltanto alla produzione e ai consumi, con l’essere umano che pare non abbia via di scampo. Un sistema, per cui si lavora, si produce e si consuma, niente di più. I nuovi poveri sono coloro che lavorano e consumano, che pensano di pensare e agire, ma che pensano e agiscono, rispondendo senza che si fiati a quanto viene imposto. Così si deve essere e così si è, tutti assoggettati a ogni sorta di vessazione comportamentale. Quali siano i poteri più o meno evanescenti che portino alla povertà del nostro tempo non è agevole individuarli, sebbene messaggi pubblicitari, social e cellulari non sembrino avulsi da tali condizionamenti socioculturali odierni. Pare un fenomeno, in effetti, diffuso e inconfutabile.
Nel panorama attuale, come ritiene che si possa intervenire efficacemente per rompere il ciclo della povertà e promuovere una mentalità più proattiva tra coloro che si trovano in situazioni svantaggiate?
Un’impresa ardua. D’altronde, combattere l’ignoranza è uno dei mali peggiori di ogni tempo. Soltanto gli studi e le conoscenze possono produrre spiriti critici in grado di contrastare imposizioni esterne, che rendono schiavi di mentalità comuni avvilenti e massificanti, standardizzate e improduttive. Servirebbe un nuovo Umanesimo, una rivoluzione culturale e spirituale. Quel che manca soprattutto alle giovani generazioni, con ogni probabilità influenzate dai mancati indirizzi dei più attempati, a cui spetterebbe il compito di guida e riferimento sicuri. È l’aspetto formativo e identitario insomma, cultura e religione, ragione e spiritualità.
Nel suo testo, si fa riferimento alla regola del “Dividi et impera” e alla sua persistenza nel tessuto sociale. Quali sono, secondo lei, le principali manifestazioni contemporanee di questa dinamica e come possiamo contrastarla?
Uno dei metodi più efficaci per il mantenimento del potere, per l’affermazione di una supremazia sociale è quello del “dividi et impera”, che pare abbia sempre funzionato e ancora funziona alla grande… un dato incontrovertibile. Dall’antichità fino ai giorni nostri. Per rendere inoffensive le masse, bisogna che sia elargiscano, con arguta perizia, modelli socioeconomici comportamentali, che favoriscano agoni verso successi effimeri, procurati individualismi improduttivi. L’asservimento alle banalità di un mondo costruito sull’effimero, il vacuo invasivo e il distorto che annienta ogni professione di spiritualità, spegne ogni ardore di sano e costruttivo soggettivismo, abbassando livelli e negando originalità produttive. Una ricerca forsennata di benesseri illusori, che ammette prevaricazioni e soprusi in un mondo declamato come tanto avanzato e progredito.
Infine, ci parli della sottile ironia che permea il suo lavoro. Come pensa che questa possa contribuire a una migliore comprensione delle complesse dinamiche della società odierna?
Con ogni probabilità, se narrassimo quanto si osserva e si sente, proporremmo una sequela di immagini ed eloqui di una desolazione unica. Per non cedere alle tentazioni di tristezze manifeste e diffuse, forse le armi vincenti sono quelle di una ragionata ironica visione di quanto sta accadendo. Nulla di meglio per salvarsi dai superficiali imperanti che dominano questo mondo, anche per il raggiungimento di risultati validi a livello formativo.
Ringraziamo Francesco M. Della Ciana per aver condiviso con noi le sue illuminanti riflessioni sulla povertà, la ricchezza e le dinamiche sociali. Il suo libro, “De pauperitate note”, non solo ci offre una visione critica della realtà, ma ci invita anche a riflettere sulle nostre stesse mentalità e sulle possibilità di cambiamento. Attendiamo con ansia i suoi prossimi lavori e ci auguriamo che il suo contributo possa ispirare azioni concrete verso una società più inclusiva e solidale. Grazie ancora per essere stato con noi.
