GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: Il paese delle mandorle – Michele De Palma

Benvenuti sul blog del Gruppo Albatros, dove raccontiamo storie, emozioni e pensieri che prendono vita attraverso le parole dei nostri autori. Oggi abbiamo il piacere di ospitare Michele De Palma, autore de Il paese delle mandorle, un romanzo che ci porta nel cuore della Puglia degli anni ’60, nel piccolo borgo di Mariotto, in un’epoca di grandi contrasti tra tradizione e modernità. Un racconto corale e suggestivo che celebra la bellezza di un tempo passato e la forza delle radici. Grazie per essere qui con noi, Michele. È un onore poter parlare del suo libro e della storia che ha deciso di raccontare.

Il paese delle mandorle è un romanzo corale che si sviluppa in un contesto storico ben preciso. Cosa l’ha ispirata a scrivere questa storia ambientata nella Puglia degli anni ’60?

Noi anziani abbiamo avuto l’opportunità di vivere in due epoche completamente diverse: il dopoguerra della povertà e l’odierna modernità del benessere diffuso. Per esempio, negli anni ’50 e nei primi anni ’60 nel mio paesino Mariotto non c’era acqua corrente né fognatura e l’alimentazione era carente e l’igiene era molto relativa; per queste ragioni la mortalità infantile era molto alta. C’erano pochissime automobili e per questo la vita si svolgeva tutta all’interno del villaggio; solo le poche famiglie facoltose possedevano la televisione e, forse, proprio per questo c’era una vita sociale molto intensa, rapporti di vicinato familiari, solidali.  La vita scorreva al ritmo delle festività religiose, molto sentite nella loro semplicità: i falò di Santa Lucia in tutti i quartierini, l’attesa della nascita del Bambinello la notte di Natale, la poesia di Natale di noi bambini recitata durante il pranzo natalizio per ricevere in dono pochi soldini e qualche caramella, gli altarini mariani a maggio, la festa patronale ad agosto che era anche l’occasione per sfoggiare l’abito nuovo. Bambini e ragazzini, poi, vivevano in piena libertà nelle stradine vicino alle case, avevano tanti giochi in cui cimentarsi: i più grandi costruivano monopattini – che chiamavamo slitte – e fionde per andare a caccia di uccelli. Di quel tempo ormai poco o niente è rimasto e sarebbe un peccato se tutto ciò che fu cadesse nel dimenticatoio. Ciò che mi ha ispirato a scrivere questo romanzo è proprio la consapevolezza dell’importante ruolo di noi anziani nel trasmettere ricordi e tradizioni, per far conoscere e ricordare alle nuove generazioni quali sono le loro origini.

Mariotto è un piccolo borgo ricco di tradizioni e sfide legate al lavoro agricolo. Come ha lavorato per ricreare l’atmosfera e il tessuto sociale di quell’epoca?

Non mi è risultato difficile ricreare l’atmosfera ed il tessuto sociale dell’epoca in cui è ambientato “Il paese delle mandorle”; infatti, nel mio piccolo paesino si usa ancora intrattenersi e passeggiare nella grande piazza e quando ci si ritrova tra coetanei di una certa età, capita sovente di ricordare un personaggio, un aneddoto, un fatto accaduto nel passato. È come se quelle persone tornassero a vivere tra noi, con le loro storie, le loro avventure, i loro mestieri. È come se a Mariotto non si morisse mai completamente.

I giovani personaggi come Peppino ed Eleonora vivono il contrasto tra il legame con il paese e il desiderio di un futuro diverso. Quanto c’è di autobiografico nei loro sogni e nelle loro aspirazioni?

Per rispondere a questa domanda, faccio riferimento al mio diario quando, verso la fine degli anni ’60, scrivevo così: “Non una strada che non abbia percorso; non un volto che non abbia guardato migliaia di volte. Ogni giorno, ogni ora, ogni attimo gli stessi meccanici moti, le stesse parole noiose, gli stessi sospiri. Vorrei esser cieco per non guardare più niente, vorrei esser sordo per non sentire la gente, vorrei fuggire e non posso”. Fino al 1961 a Mariotto non c’era la scuola media ed il destino di tutti noi ragazzi era il lavoro nei campi. Con l’apertura della scuola media si aprì la prospettiva di proseguire negli studi. Gli anni ’60, poi, furono in tutta Italia anni di grandi cambiamenti ed anche per Mariotto iniziarono gli anni del progresso. Da Mariotto in molti partivano, emigravano; ma il cuore rimaneva lì. Anche io andai via, a Castel Bolognese. Ma dopo sette anni tornai nel mio amato paesino. Mi ritrovo molto nella citazione di Cesare Pavese de “La luna e i falò” che dice: “Un paese ci vuole. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”.

Il tema delle radici e della comunità emerge con forza nel romanzo. Qual è il messaggio principale che vorrebbe trasmettere ai suoi lettori attraverso questa storia?

Essere orgogliosi delle proprie origini. Orgogliosi di quei contadini che hanno sofferto la fame, che si sono sacrificati per i loro figli, che hanno trasmesso loro i sani principi dell’onestà, il valore del lavoro, i valori della generosità, dell’amicizia e dell’ospitalità. Essere fieri dei nostri nonni e dei nostri padri che, grazie a una vita sobria, hanno dato ai loro figli e nipoti quelle cose essenziali che loro non hanno avuto, permettendo loro di proseguire negli studi e porre le basi per quel benessere economico di cui oggi possiamo beneficiare.

Il paese delle mandorle è anche un omaggio alla sua terra. C’è una scena o un personaggio del libro che sente particolarmente vicino e che vorrebbe raccontarci?

Sicuramente mio nonno Lorenzo. Gli ero e gli sono tutt’ora particolarmente affezionato e conservo tantissimi bellissimi ricordi in sua compagnia. Per esempio, finito l’anno scolastico – frequentavo la scuola elementare – trascorrevo la maggior parte della giornata alla casa dei nonni Lorenzo e Carmela, i genitori di mia madre. O meglio, la trascorrevo nella stradina dove abitavano i nonni, perché lì incontravo i miei cugini e gli altri ragazzini del vicinato per giocare a fare gli indiani nell’orto retrostante la stalla. Nonno Lorenzo gestiva una fornace dove venivano bruciate le bucce di mandorle del villaggio. Nel pomeriggio lui e i due zii, Nanuccio e Cosimino giravano col traino per le strade di Mariotto fermandosi dove trovavano paesani intenti a ripulire le tavolate dalle bucce di mandorle. Due, tre giri al giorno. A fine raccolta delle mandorle, le bucce venivano bruciate e le ceneri vendute a dei compratori siciliani che pare ne facessero sapone o chissà cosa. Nel periodo delle ciliegie – a fine maggio – e dei fioroni – a fine giugno – nonno Lorenzo portava me e mio cugino Paolo, in alcuni campi lontani dal paesino per riempire sporte di frutti belli maturi; per noi era una vera e propria avventura! Uno di quei campi era ad Amelia, a circa dieci chilometri di distanza. Una volta il nonno inavvertitamente morse un fiorone sul quale vi si era attaccata una cicala; fortunatamente riuscì a sputare tutto prima di ingoiare il boccone. Ma l’avventura più bella col nonno fu la gita al mare di Santo Spirito insieme ad altri due cugini; potevamo avere otto anni circa. Partimmo da Mariotto con un autobus dal muso lungo. Arrivati a Bitonto ci dirigemmo alla stazione per prendere un treno locale: era la prima volta che salivo su un treno. I sedili erano in legno e quasi tutti occupati dai primi villeggianti, giacché erano i primi giorni d’estate. Scendemmo vicino al porto, davanti al già all’epoca famoso bar “Qui si gode”. Dopo pochi passi fummo già in riva al mare. Era la prima volta che vedevo il mare! Quanta acqua! Era proprio come il mare che avevo immaginato leggendo i libri di scuola. C’erano tante barche di pescatori e tanti uccelli con grandi ali che volteggiavano tutt’intorno che ci fu spiegato fossero gabbiani. Il nonno era così contento nel vedere la nostra felicità! Davanti alla casa del nonno c’era un grande spiazzo. Quando si sposò zio Michele l’americano con zia Doretta, i parenti invitati al festeggiamento si accomodarono dentro la casa, ma soprattutto nello spazio antistante. Nella fotografia di quel matrimonio che conservo, oltre a tutti gli zii e le zie ci sono anche io: potevo avere non più di quattro anni. A quel tempo, nei primi anni ’50 del secolo scorso, a Mariotto non c’erano ancora le sale ricevimenti per gli sposalizi. Al ritorno degli sposi dalla chiesa in testa al corteo formato da tutti gli invitati, si festeggiava nella casa di uno dei genitori, in qualche stanzone e nel cortile esterno. Ricordo come un sogno che agli invitati adulti venivano offerti enormi panini con mortadella e provolone, accompagnati da bicchieri di vino; poi la cassata siciliana come dessert e, infine, il rosolio, un liquore dolciastro fatto in casa. Qualche giorno prima di Natale il nonno ammazzava il maiale che cresceva nell’orto e alla cui alimentazione contribuivamo anche noi bambini con le ghiande che andavamo a raccogliere sotto i lecci della grande piazza del paese. Nell’orto c’era un recinto nel quale venivano accudite da mamma e zia Maria due caprette fondamentali per ricavarne il latte con il quale, poi, si preparava la ricotta. A noi bambini davano da bere solo il siero. Erano altri tempi quelli; non c’erano le comodità di oggi, ma forse si era più felici. Eravamo poveri, ma non ce ne accorgevamo.

Grazie, Michele, per aver condiviso con noi il mondo di Il paese delle mandorle e le emozioni che lo animano. La sua narrazione ci ricorda l’importanza di guardare al passato con rispetto e gratitudine, senza mai dimenticare le radici che ci hanno forgiato. Invitiamo tutti i nostri lettori a immergersi in questo splendido romanzo, che sa toccare le corde più profonde del cuore. Continuate a seguirci sul blog del Gruppo Albatros per scoprire altre storie e autori che, come Michele, ci regalano frammenti di vita e di memoria. Alla prossima!

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