Benvenuti sul blog del Gruppo Albatros! Oggi abbiamo il piacere di intervistare Gerardo Giffuni D’Angelo, autore di Diciannove racconti di sparizione. O forse venti, un’opera che ci conduce in un viaggio profondo e struggente tra le pieghe del tempo, della memoria e dell’identità. Attraverso la storia misteriosa di Tjana Kovačević, scomparsa durante la guerra in Croazia, il libro esplora il peso delle cicatrici invisibili lasciate dai conflitti, la ricerca di risposte e la lotta per ritrovare se stessi. Con grande intensità e un tocco quasi magico, l’autore ci invita a interrogarci su temi universali: chi siamo davvero? E cosa siamo disposti a fare per affrontare le nostre sparizioni interiori?
Cosa l’ha spinta a scrivere questa raccolta di racconti e, in particolare, la storia di Tjana Kovačević?
Premetto che sono nato e ho vissuto, i miei primi 23 anni di vita, a Caracas Venezuela. Avendo studiato Antropologia, ho conosciuto persone, realtà e culture molto diverse come quelle indigene, afro-latine e straniere; alcuni emigranti avevano deciso di lasciare il proprio Paese dopo aver vissuto periodi di guerre, dittature o calamità. Gli studi di specializzazione in Italia mi hanno portato a mettermi in contatto con altre situazioni. Dedicandomi posteriormente all’insegnamento di materie legate alla difesa dei diritti civili e umani, sono venuto a conoscenza del dramma esistenziale che vivevano tante altre persone. Per anni ho scritto racconti che si ispiravano a ciò che alcune di esse mi avevano confidato. Così, a distanza di quarant’anni, ho deciso che era arrivato il momento di tirarli fuori dal cassetto e di pubblicarli, per far conoscere ai miei studenti e a un pubblico generale il messaggio profondo che avevo raccolto negli incontri con individui che a me avevano trasmesso qualcosa di straordinario, ciò che ciascuno di loro mi aveva raccontato mi ha arricchito come essere umano e professionalmente. Negli anni Novanta scoppiò una guerra accanto al confine orientale dell’Italia, un conflitto bellico in Europa era impensabile. Allora ho conosciuto una donna croata scappata da sola dal suo Paese, era arrivata in Italia quando era una bambina. La sua storia ispirò il personaggio di Tjana Kovačević. Nel 2003 siamo riusciti insieme a organizzare una conferenza con gli studenti di un centro di formazione dove insegnavo per parlare degli orrori della guerra nei Balcani. Una frase potente detta da lei. mentre esponeva, mi colpì e mi servì di ispirazione per sviluppare il racconto: “Prima eravamo tutti cittadini dello stesso paese, addirittura ci volevamo bene, eravamo come fratelli. Poi, l’odio nato e cresciuto con la guerra e la sua lunga durata ci portò a vivere l’orrore e i fatti più terribili che gli esseri umani possono sviluppare quando sono stati disumanizzati”.
Il tema della sparizione è centrale nel libro. Qual è il messaggio che desidera trasmettere attraverso queste storie?
Il libro è composto da una raccolta di racconti che hanno qualcosa di specifico in comune: il protagonista scompare. La sparizione, come ho sentito citare da diversi autori, può essere un diritto. In uno dei racconti è così, ma negli altri la scomparsa può essere subita perché imposta da un sistema che non rispetta la libertà, oppure da un corpo che si ammala, da una solitudine insopportabile, non voluta, dalla morte che irrimediabilmente arriva, dalla scelta di una opzione che ne esclude un’altra, dal lasciare il proprio paese, ecc. Credo che in ogni tipo di sparizione si perda molto, qualcosa o tutto, ma che allo stesso tempo essa possa genera un riscatto, una nuova forma di essere e di apparire. La sparizione propria o dell’altro diventa significativa. Sparire può essere una grande ferita, ma le ferite possono diventare feritoie da dove passa la luce per concepire qualcosa di nuovo, di sano, gentile, compassionevole e altruista.
Quanto hanno influito le vicende storiche della guerra in Croazia nella costruzione dei suoi personaggi e delle loro esperienze?
Molto! Non solo nella costruzione dei miei personaggi e delle loro esperienze, ma soprattutto nelle scelte di vita che ho fatto. Mio padre era italiano e durante la Seconda Guerra Mondiale fu destinato a combattere in Russia. I miei nonni materni, anch’essi italiani, vissero la Grande Guerra, amici latinoamericani che ho conosciuto vivendo in Venezuela e poi in Italia, hanno avuto nei luoghi di origine terribili esperienze dovute alle guerre civili o alle ferree dittature che si protrassero per anni e anni al potere. All’età di ventotto anni fui chiamato a prestare il servizio militare qui in Italia, allora più che convinto decisi di dichiararmi obiettore di coscienza, di ripudiare l’uso delle armi come risoluzione dei conflitti. Ogni persona che ha vissuto periodi storici di disumanizzazione, ma anche di grande gentilezza e altruismo aiutando a chi era immerso in un profondo dolore, che ho incrociato nella mia strada di scrittore di racconti ha influenzato e accresciuto il mio percorso esistenziale e professionale e, di conseguenza, la mia creatività. Devo molto alle persone conosciute che hanno ispirato i nomi e le storie dei personaggi dei miei racconti.
La lotta con la propria immagine riflessa e l’assenza di specchi sono simboli potenti nel racconto. Qual è il significato più profondo di questi elementi?
In più di un racconto i personaggi protagonisti hanno un problema con la propria immagine riflessa, non l’accettano, vorrebbero cambiarla, cercare altro, cercare un altrove. Addirittura, nel primo racconto “Tjana è sparita” la protagonista evita di guardarsi negli specchi, arriva persino a eliminarli. In altri racconti, lo specchio si frantuma in mille pezzi oppure, la malattia impedisce il potersi guardare. Il corpo può essere specchio dell’anima. Guardare il proprio corpo, in alcune storie raccontate, può portare il personaggio a rivedere o a rivivere le atrocità subite, imposte, laceranti, non risolte. In altre c’è invece chi si guarda troppo, in maniera narcisistica. Nell’ultima, finalmente qualcuno riesce a guardarsi e a costruire un pensiero di cambiamento positivo.
Il suo libro si muove tra realtà, introspezione e mistero. Quanto c’è di autobiografico o personale in queste storie?
É proprio vero! Volutamente i racconti del mio libro si muovono tra realtà, introspezione e mistero, si inoltrano anche nel mondo dei sogni, della comunicazione tra i vivi e i morti; nel mio modo di scrivere sono stato inevitabilmente influenzato dalla letteratura latinoamericana classificata come “Real maravilloso” che in Europa si conosce con il termine di “Realismo magico”, Senz’altro in ciò che scrivo c’è un che di autobiografico o personale, direi che rappresenta lo stimolo iniziale che mi porta alla scrittura perché nasce dall’aver incontrato persone e altri esseri viventi (animali e piante) che hanno influenzato il mio pensiero. Condivido che scrivere è come dicono alcuni scrittori: mentre scrivi ogni personaggio prende il largo dal racconto sviluppando una vita tutta sua per tenere in piedi la storia. Quando scrivo capita di sentire arrivare il personaggio, mi si siede a fianco e mi suggerisce la storia che con il mio stile devo sviluppare. Infine, c’è il valore e l’interpretazione che dal lettore a ciò che è stato raccontato e al “non detto” che ha potuto e dovuto immaginare. Il racconto non è di chi lo scrive, ma di chi lo legge perché con la sua immaginazione lo farà suo.
Grazie, Gerardo, per averci accompagnato in questo viaggio tra le pagine di Diciannove racconti di sparizione. O forse venti. Le sue parole ci invitano a riflettere sulla forza della memoria, sulla resilienza dell’identità e sulla speranza di ritrovarsi anche quando tutto sembra perduto. Invitiamo i nostri lettori a immergersi in questa opera intensa e piena di significato, certi che ogni storia lascerà un segno indelebile. Alla prossima, con altre storie e autori da scoprire!
