Nel panorama letterario contemporaneo, le memorie personali si rivelano spesso uno specchio della società, un modo per ripercorrere frammenti di storie collettive attraverso esperienze individuali. Con il suo libro Ho avuto un’infanzia felice, Basilio Crescenzi ci porta in un luogo che è al tempo stesso reale e immaginario, intrecciando un affresco del Sud Italia con un viaggio nella propria anima. Ambientato tra Sarno, Acerra e Napoli, questo racconto, intimo e universale, invita il lettore a riflettere sul valore dei ricordi, sulle sfide della vita e sulle lezioni che solo un passato vissuto intensamente può trasmettere. È con grande piacere che oggi dialoghiamo con l’autore per scoprire i retroscena e le emozioni dietro questa opera unica.
Cosa ti ha spinto a scrivere Ho avuto un’infanzia felice e a condividere i ricordi di una fase così intima della tua vita?
Ho cominciato qualche anno fa alle soglie della mia ottava decade di vita, spronato soprattutto da mia moglie, a fissare sulla pagina scritta l’esperienza maturata in oltre quaranta anni di lavoro nelle strutture universitarie ed ospedaliere soltanto per lasciare ai miei affetti familiari ed ai miei colleghi la memoria di quello che abbiamo costruito insieme. Questo libro ha visto la luce, pertanto, per descrivere la nascita e lo sviluppo di una struttura assistenziale di alta specializzazione (la Chirurgia Cardiovascolare) in un ambiente difficile, quale è quella del Mezzogiorno d’Italia, che sconta da sempre un gap importante con le realtà del Nord, in un periodo storico, gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, di grandi trasformazioni., tragiche contrapposizioni politiche culminate nella lotta armata contro lo Stato, crisi economiche ma anche grandi conquiste sociali e affermazione di diritti inalienabili. La mia è la testimonianza di chi ha partecipato in prima persona alla realizzazione di un progetto ambizioso e irto di difficoltà portato avanti da un gruppo di giovani, guidati da un Capo che per età poteva essere considerato un loro fratello maggiore, con caparbia volontà; una narrazione cruda che vuole svelare al lettore quanto lavoro e sofferenza e sacrificio c’è dietro la facciata di una realtà di successo. Procedendo nella stesura, l’orizzonte si è ampliato e sono venuti a galla ricordi che mi hanno trasportato sempre più indietro nel tempo, fino ad arrivare al momento in cui sono venuto alla luce. Mi sono accorto che non era possibile scindere la mia vita privata dall’impegno professionale. L’una e l’altra si sono intrecciate come l’edera ai muri e l’aver vissuto un’infanzia felice ha avuto un ruolo determinante per il mio percorso professionale e in generale per tutta la mia vita con le vicende tristi o liete che l’hanno attraversata. Allora era necessario partire dal principio, dalla casa dei nonni ad Acerra, dagli anni Cinquanta a Sarno per ritrovare le radici da cui si è sviluppato l’albero della mia vita. Questo libro non è solo una autobiografia ma il racconto di un periodo storico, dagli anni duri del dopoguerra a quelli altrettanto difficili dell’epoca attuale, visto con gli occhi del protagonista testimone di storie minime che tutte insieme fanno la Grande Storia. Per raccontare e raccontarsi era necessario spogliarsi completamente, senza pudori o reticenze mettere a nudo la propria anima senza paura di mostrare anche gli aspetti più intimi che mai l’autore avrebbe pensato di poter condividere con altri.
Il Sud Italia che emerge dalle tue pagine è un luogo fatto di contrasti: come hai scelto di raccontare i suoi lati più luminosi e quelli più complessi?
Le vicende si svolgono in un orizzonte fisico ristretto e limitato, racchiuso in un perimetro che insiste tra Acerra, Sarno e Napoli, tra le piccole ed operose città di provincia e la grande e vivace metropoli, antica capitale di un regno, in un arco temporale molto ampio. Alla mia nascita la guerra era appena finita e i paesi in cui ho vissuto la mia infanzia portavano ancora segni evidenti delle ferite inferte dai bombardamenti. In un contesto fondamentalmente rurale si viveva una vita semplice ma, nei miei ricordi, serena. Tuttavia, il dramma dell’emigrazione economica era evidente, anche se ai miei occhi di bambino assumeva i contorni della normalità. In effetti non c’era nessun nucleo familiare nei ceti meno abbienti, che erano poi la maggioranza, senza un congiunto emigrante. Certamente i lettori ricorderanno le scene del film di Massimo Troisi in cui appena il protagonista diceva di essere originario di Napoli scoccava la domanda <emigrante?> quasi fosse scontato che qualunque meridionale si trovasse al Nord appartenesse a quella categoria. Il distacco tra poveri e ricchi non era, però molto evidente, anche perché di veramente ricchi ve ne erano molto pochi. Man mano la forbice si è sempre più allargata fino allo scandalo dei nostri giorni con ricchezze veramente spaventose, molte di dubbia provenienza, e povertà terribili. Nel libro questi contrasti appaiono sfumati, sullo sfondo, con una data di inizio ben precisa, quel novembre dell’ottanta, il terremoto dell’Irpinia. Quel tragico evento ha determinato un prima e un dopo. Il fiume di denaro pubblico che ha inondato vasti territori del Sud ha alimentato, secondo l’autore, varie forme di illegalità grandi e piccole con lo sviluppo di organizzazioni criminali che, pur essendo già presenti nel territorio, hanno avuto una crescita esponenziale. Attività criminali che poi si sono nel tempo riciclate nel mercato della droga e poi nell’affare dei rifiuti e poi in quello sempre più redditizio dell’immigrazione clandestina. In questo contesto e in quegli anni si è sviluppata la vicenda che è il fulcro dell’opera, la nascita e l’affermazione di una struttura assistenziale di alta specializzazione.
La memoria è un filo conduttore del tuo libro: secondo te, quale ruolo gioca nel formare il carattere e nell’affrontare le sfide della vita?
La memoria di quello che ho costruito insieme ai mei colleghi e poi ai miei collaboratori si intreccia indissolubilmente con i ricordi personali. Il libro nasce proprio per lasciare una testimonianza a quelli che continuano l’opera da noi iniziata e ai miei nipotini perché comprendano il valore dell’impegno e della perseveranza per raggiungere gli obiettivi che ognuno di noi deve porsi nella vita. Historia magistra vitae! Senza la memoria di quello che ci hanno lasciato i nostri antenati non è possibile affrontare le sfide che la vita ci propone; un popolo che non coltiva la memoria del suo passato si inaridisce come un albero con le radici seccate.
Tra i personaggi che popolano il tuo racconto, ce n’è uno a cui sei particolarmente legato o che rappresenta un modello per te?
“Ho conosciuto la persona che ha dato una svolta alla mia vita in un afoso pomeriggio d’estate del 1969”. Questo è l’incipit dell’opera. Appare chiaro fin da subito quale sarà il personaggio centrale della storia; senza di lui i fatti narrati non ci sarebbero stati oppure avrebbero avuto un altro corso. Tuttavia, nel racconto, come scrive nella prefazione il professore Pititto, compaiono sulla scena tanti personaggi alcuni rimasti in ombra, sullo sfondo, altri tratteggiati in profondità come i genitori, la madre in particolare, che ha rappresentato per l’autore un riferimento fondamentale fino all’incontro con la ragazza che poi diventerà sua moglie, un altro personaggio chiave del racconto; incontro che provocherà lo scontro con lei e una frattura mai più pienamente sanata. Se devo essere sincero, però, dei tanti personaggi che popolano le pagine del libro nessuno rappresenta per me in modo esclusivo un modello che abbia desiderato di imitare. Certo, ci sono persone a cui sono particolarmente legato, i miei genitori o mia moglie o le mie sorelle, ma il mio carattere forte e determinato da vero Leone, sono nato il 24 luglio, una certa dose di alta considerazione di me stesso, frutto anche dell’atteggiamento di mia madre convinta di avere un figlio eccezionale, mi impediscono di uniformarmi a qualche persona che ha attraversato la mia vita. Preferisco proporre me stesso quale modello per gli altri; e qui esce fuori un lato della mia personalità che mi ha attirato spesso critiche e inimicizie per il modo di rapportarmi, duro ed intransigente, verso il prossimo. Atteggiamento che in fondo, forse, tradisce la mia timidezza di base.
Quale messaggio o emozione speri che il lettore porti con sé una volta terminato il libro?
Scrivendo il libro non ho mai pensato di lasciare o lanciare un messaggio ai dieci lettori che avranno la bontà di leggerlo. Emozioni sì! spero ne susciti in abbondanza. Qualcuno, leggendo il libro, sarà preso dalla nostalgia canaglia per un tempo che fu e che nel ricordo si ammanta di dolcezza anche quando invece fosse stato duro e difficile; altri troveranno nella vita dell’autore qualcosa che la accomuna alla propria; altri ancora saranno presi dall’ammirazione per quanto ha saputo realizzare un gruppo di giovani determinati e disposti al sacrificio; altri reagiranno con sentimenti di invidia o addirittura di disprezzo. Quando leggo un libro non mi domando mai quale messaggio ha voluto mandarmi il suo autore ma continuo nella lettura solo se mi emoziona. Ecco, spero che questo accada ai miei lettori.
Grazie, Basilio, per aver condiviso con noi le riflessioni e i sentimenti che hanno ispirato il tuo libro. Ho avuto un’infanzia felice è un’opera che ci ricorda quanto la memoria sia uno strumento potente per costruire il presente e guardare al futuro con consapevolezza. Invitiamo i lettori a immergersi in questo racconto capace di emozionare e far riflettere, scoprendo tra le sue righe il valore delle radici e delle esperienze che ci accompagnano per tutta la vita.
