GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: Tra le mura del carcere, torpore e passione – a cura di Giovanna Testa

Oggi abbiamo il piacere di dialogare con Giovanna Testa, autrice del libro “Tra le mura del carcere, torpore e passione”. Con un ricco background accademico e professionale nel campo del servizio sociale e una lunga esperienza all’interno degli istituti penitenziari, Giovanna ci offre uno sguardo approfondito e inedito su un mondo complesso come quello carcerario. La sua opera, frutto di anni di riflessioni e di contatti con la realtà detentiva, esplora con sensibilità e competenza le dinamiche emotive, sociali e affettive che si sviluppano dietro le sbarre, ponendo l’accento su temi delicati come la sessualità e i legami affettivi in carcere. Siamo curiosi di conoscere il suo percorso e di approfondire alcuni aspetti del suo libro.

Nel suo libro, il carcere emerge come un microcosmo di relazioni complesse. Qual è stato l’aspetto più difficile da affrontare durante la stesura di quest’opera, e cosa l’ha ispirata a concentrarsi sull’affettività dietro le sbarre?

Il carcere spesso genera indifferenza o distacco, percepito come una realtà lontana dal proprio vissuto. Al tempo stesso, può suscitare curiosità e incoraggiare a esplorare ciò che sembra distante, stimolando interesse umano, scientifico e molto altro. Per chi, come me, ha coltivato e approfondito la letteratura scientifica in materia ed ha vissuto il carcere come luogo di lavoro e di esercizio professionale, l’esigenza di raccontare questo microcosmo nasce soprattutto dal desiderio di dare voce a realtà spesso trascurate e poco discusse. L’affettività, per esempio, intesa nella sua accezione più ampia, costituisce una delle variabili più importanti da indagare per comprendere il mondo carcerario, i comportamenti e i drammatici esiti che possono derivare dalla condizione detentiva. In carcere, l’affettività assume un valore ancora più pregnante, poiché se sostenuta adeguatamente protegge l’individuo recluso nella sua sfera più intima, aiutando a mitigare la solitudine, l’isolamento e lo stress dovuti alla mancanza di ascolto, al controllo degli spazi, alla regolazione del tempo e dei movimenti, all’assenza di privacy. Relazioni affettive positive possono fornire un sostegno emotivo insostituibile, favorendo il benessere psicologico e preservando la dignità personale. I bisogni affettivi, inclusi amore e sessualità, spesso ribollono sotto la superficie e faticano a emergere, repressi o soffocati dai detenuti stessi per paura di essere giudicati, etichettati, sanzionati, emarginati o derisi. Quando questi bisogni di intimità, affetto, comunicazione e calore umano vengono repressi, possono dar luogo a forme estreme di ostilità o di aggressività auto ed eterodiretta. Chi frequenta le carceri sa bene che le emozioni non controllate e i bisogni affettivi non soddisfatti possono portare a manifestazioni disperate, fino all’eccesso, specialmente laddove il detenuto utilizzi il proprio corpo come strumento di espressione o richiesta d’aiuto: tatuaggi improvvisati e pericolosi, atti di autolesionismo, tentativi riusciti o meno di suicidio. L’autolesionismo è una costante nelle strutture penitenziarie, testimoniando la funzione comunicativa che esso assume in un contesto così oppressivo. Ritengo essenziale parlare di questi temi con chiarezza e semplicità, per portare alla luce aspetti di un mondo che spesso resta nell’ombra. Uno degli argomenti più complessi da trattare durante la stesura del libro è stato quello della sessualità, un tema delicato, ricco di implicazioni, che richiede un approccio particolarmente attento e ponderato.

La questione della sessualità in carcere è spesso considerata un tabù. In che modo, secondo lei, il sistema penitenziario italiano potrebbe evolvere per affrontare questo aspetto con maggiore apertura e sensibilità?

La Corte Costituzionale si è occupata più volte di questi temi, auspicando “ogni attenzione da parte del legislatore”. Nonostante ciò, la questione della sessualità in carcere non ha ancora trovato soluzioni adeguate, anche a causa di una prolungata inerzia legislativa. Solo da ultimo, con la sentenza n. 10 del 2024, la Corte ha segnato una tappa fondamentale in questo complesso percorso. Secondo l’articolato ragionamento della Corte, la questione dell’affettività intramuraria riguarda l’individuazione del limite entro cui lo stato detentivo può giustificare la compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella sua dimensione più intima. Oltre questo limite, il sacrificio della libertà diventa costituzionalmente ingiustificabile, sfociando in una lesione della dignità umana. L’intimità degli affetti, quindi, non può essere sacrificata con carattere assoluto dall’esecuzione penale oltre la misura strettamente necessaria, altrimenti la sanzione risulterebbe eccessivamente afflittiva, e così anche percepita, vanificando e ostacolando il principio dell’individualizzazione del trattamento e il fine della risocializzazione. In effetti, la “desertificazione affettiva” che ne deriverebbe è l’esatto opposto del recupero sociale. Oltre questa premessa, va detto che la questione è certamente molto complessa e presenta una molteplicità di aspetti e problemi da risolvere. A mio avviso, l’approccio migliore per affrontare la discussione nel tentativo di individuare e pianificare possibili soluzioni dovrebbe basarsi su riflessioni e ragionamenti liberi da pregiudizi e ideologie, che invece in modo insidioso accompagnano questi argomenti. Un approccio pragmatico può rivelarsi molto utile, sebbene sia importante esaminare ogni dettaglio e ogni implicazione per evitare che le indicazioni della Corte si traducano in soluzioni approssimative o poco dignitose per la persona. Inoltre, particolare attenzione va prestata alla salvaguardia del diritto di scelta di tutte le parti implicate, detenuti e partner. Su questo tema occorre guardare ai diritti del detenuto, ma altrettanto offrire garanzie e tutela alle persone che accedono ai colloqui riservati. Si tratta di cambiamenti che vanno accompagnati da iniziative serie, capaci di soddisfare le aspettative, basate sulla sensibilizzazione e la formazione del personale, a cui bisognerebbe pensare già nell’immediato. Questo, affinché l’evoluzione del sistema penitenziario verso l’attuazione di un “nuovo volto costituzionale della pena” venga percepito e vissuto come una conquista di tutti e non come un ulteriore aggravio e cambiamento imposto e quindi da subire. Per meglio orientarsi, credo sia cruciale fare riferimento alle cosiddette “buone pratiche”, osservando le esperienze prolungate di molti Paesi europei e adattandole ai contesti italiani. Ritengo infine fondamentale che le disposizioni che arriveranno dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in merito all’applicazione della sentenza n. 10/2024, siano seguite da un costante monitoraggio da parte degli uffici centrali, per evitare distorsioni e difformità applicative, oltre che rallentamenti ingiustificati a livello periferico.

Come il suo background accademico e le sue esperienze lavorative nel sistema penitenziario hanno influenzato la prospettiva con cui ha trattato i temi del suo libro?

La mia formazione accademica e personale mi ha portato a prestare particolare attenzione alla questione dei diritti umani e sociali, ai principi di giustizia e inclusione sociale, riconoscendo il valore dell’autodeterminazione e la necessità di relazioni equilibrate tra soggetti e ambienti di vita. Ho sempre sostenuto l’importanza dell’autonomia personale e la necessità di promuovere una corretta informazione per favorire l’accesso alle risorse e la capacità di scelta degli individui. Credo nella valorizzazione di possibili forme di collaborazione e sinergia tra risorse istituzionali e solidaristiche per affrontare le difficoltà e il disagio di singoli, famiglie, gruppi e comunità. La mia esperienza lavorativa ha arricchito questa formazione, permettendomi di esplorare in profondità la realtà istituzionale, umana e organizzativa del carcere. Le relazioni interprofessionali e il contatto con persone recluse di provenienza e stili di vita differenti mi hanno ulteriormente aperto l’orizzonte mentale. Dei detenuti, ho ascoltato molte storie di vita, le difficoltà, il dolore, la rabbia, ma anche le speranze e la voglia di ricominciare. Tutto questo ha senza dubbio influenzato la scelta dei temi trattati nel libro e il modo in cui ho indirizzato la riflessione. Non ho inteso creare un saggio scientifico improntato a rigide regole formali, ma piuttosto offrire un ritratto umano e poco conosciuto di un mondo che è in parte chiuso, in parte aperto; in parte simile a quello esterno, in parte atipico; in parte seducente, in parte esecrabile; in parte vivo, in parte logoro e stressante. Il mio percorso di dottorato mi ha aiutato a mantenere un filo conduttore chiaro e a sostenere una solida argomentazione di fondo sui contenuti espressi.

Il libro offre una visione poliedrica, grazie al contributo di diverse figure professionali. Come ha gestito il coordinamento di questi contributi per mantenere una narrazione coesa?

Come accennato, l’idea alla base del libro è stata quella di dare spazio a più voci, creando un pensiero plurale e multi-prospettico. Questo approccio ha consentito agli autori di immergersi liberamente nel “campo denso” del mondo penitenziario, pur nell’ambito di un quadro condiviso. L’obiettivo non era solo quello di basarsi sulla bibliografia disponibile, ma di trarre spunto dai dati e dalle esperienze dirette e critiche di chi ha lavorato o lavora attualmente nel sistema penitenziario. Il libro rappresenta quindi una finestra aperta su un mondo noto più per i fatti di cronaca e le emergenze, che per la sua ordinaria quotidianità, offrendo ai lettori uno spaccato più autentico della vita carceraria. Nonostante la diversità di stili e focus analitici, l’elemento di coesione risiede nella condivisione dei principi fondamentali a cui rifarsi, a cominciare dal fatto di credere fermamente nel “volto costituzionale della pena”. Un altro tema comune è l’attenzione alla sfera affettivo-emozionale. Il libro esplora come, nonostante le dure condizioni di detenzione, l’amore, il desiderio di connessione emotiva e la ricerca di senso nella vita di ogni persona rimangano intatti. Anche se privati della libertà, i detenuti manifestano bisogni affettivi e vitali che reclamano attenzione, dimostrando così la loro umanità. Il titolo stesso del libro riflette l’evidente contrasto tra il torpore dei corpi rinchiusi e le passioni che continuano a pulsare, evidenziando la paradossale condizione della vita carceraria. Il primo capitolo, da me curato, si immerge nella complessità della vita reclusa, esplorando le molteplici componenti e aspetti della sfera affettiva e umana dei detenuti. Viene esaminato lo spettro della solitudine, che si intreccia con il bisogno universale di amare e sentirsi amati, in un ambiente dove l’amore e la sessualità si manifestano in modi complessi, dando vita a dinamiche uniche che richiedono attenzione e cognizione. L’amore in carcere viene analizzato nelle sue diverse sfumature, rivelando come le relazioni affettive possano prosperare anche in condizioni di privazione. Parallelamente, si pone attenzione alle figure professionali che operano nel sistema penitenziario: personale di polizia penitenziaria, psicologi, educatori, assistenti sociali, medici, infermieri, mediatori culturali, cappellani e volontari. Non ci si focalizza tanto sui ruoli, quanto sulle relazioni umane che si sviluppano tra i muri e i chiavistelli, analizzando gli sconfinamenti e le ambiguità che caratterizzano il rapporto umano e professionale tra detenuti e operatori. Particolare rilevanza viene data agli affetti familiari, che subiscono un impatto significativo dall’esperienza detentiva, a seguito della quale possono affievolirsi, complicarsi, interrompersi o richiedere nuovi equilibri emotivi. Infine, il capitolo presenta alcuni strumenti e percorsi efficaci per promuovere l’educazione emotiva all’interno delle strutture penitenziarie, offrendo soluzioni concrete per creare spazi di connessione e di comunicazione in grado di motivare i detenuti e contribuire a una trasformazione positiva della vita carceraria. Il secondo capitolo, a cura di Daniela Grignoli e Mariangela D’Ambrosio, offre un’analisi sociologica approfondita dei rapporti emotivi e sentimentali all’interno del contesto carcerario. Le autrici esplorano le relazioni familiari e l’affettività dei detenuti, avvalendosi di studi sociologici pertinenti e inquadrandoli nel contesto normativo attuale. Attraverso l’analisi di dati nazionali, viene delineata la situazione attuale delle carceri, evidenziando le difficoltà dell’ambiente penitenziario nel sostenere adeguatamente le dimensioni personali, relazionali, affettive, emotive e sessuali dei detenuti. Si sostiene che i tabù, gli stereotipi e le paure sociali legate alla sessualità contribuiscono a perpetuare schemi culturali che ostacolano il dibattito pubblico e istituzionale. Inoltre, le autrici analizzano l’impatto della pandemia da Covid-19 sul sistema penitenziario, con un’attenzione particolare alle relazioni familiari, che in quel periodo di crisi hanno subito non pochi sconvolgimenti, con effetti anche a lunga scadenza non ancora tutti rilevabili. Nel terzo capitolo, Valentina Dardone ci guida attraverso un’analisi fondata sulla sua esperienza diretta all’interno del sistema penitenziario, maturata dapprima come tirocinante universitaria e post-laurea, poi come volontaria, fino al suo attuale ruolo di psicologa esperta. L’autrice sottolinea come essere testimoni di una realtà complessa come il carcere permetta di addentrarsi nei suoi meccanismi più reconditi, favorendo riflessioni che si arricchiscono con l’accumularsi di esperienze e una conoscenza sempre più approfondita del vissuto affettivo all’interno di questo complesso contenitore di vite difficili. Il carcere viene descritto come un viaggio simbolico ed emozionale: i cancelli pesanti da attraversare e il rimbombo delle porte blindate che si chiudono, lasciano il passo a un ambiente spesso desolato e sterile, ma carico di storie umane da scoprire. L’analisi esplora in modo incisivo come l’ambiente carcerario influenzi profondamente l’affettività, non solo dei detenuti, ma anche di coloro che operano in queste strutture. Giuseppe Di Leo, autore del quarto capitolo, mette in luce alcune caratteristiche e nodi critici del sistema di esecuzione penale esterna. Si addentra nelle complesse dinamiche professionali intercorrenti tra assistenti sociali e destinatari dei servizi Uepe, evidenziando le sfide che questi professionisti affrontano nel relazionarsi con utenti sostanzialmente “non volontari”. Gli assistenti sociali si trovano costantemente a bilanciare i vincoli e gli obblighi imposti dalla funzione di controllo con i valori del mandato professionale, basato su rigorosi principi etici e deontologici che privilegiano l’aiuto e il rispetto dell’autonomia personale. A supporto di questa analisi, l’autore arricchisce il capitolo con brevi ma significativi racconti di vita, che testimoniano le sfide quotidiane di chi lavora in questo contesto, rivelando le difficoltà e le complessità del loro lavoro. Queste testimonianze offrono uno spaccato autentico del panorama professionale, evidenziando il delicato interplay tra dovere e umanità in un ambiente così impegnativo e denso di dilemmi. Il quinto capitolo ci introduce a una interessante esperienza di laboratorio intitolato “Emozioni in gabbia”, condotto da Roberto De Lena, allo scopo di fornire ai partecipanti uno spazio sicuro e strutturato per esplorare, comprendere e gestire la propria sfera affettiva ed emotiva. L’esperienza dei partecipanti, esaminata e riportata in originale, rivela la complessità dei loro vissuti, che oscillano tra dispiacere, senso di fallimento, rabbia, frustrazione, tristezza, e disgusto, ma anche momenti di spensieratezza e gioia, insieme a aspirazioni e speranze per un futuro migliore. Questo ricco arazzo emotivo dimostra, secondo l’autore, che anche in un contesto inibente come il carcere, o all’interno di comunità terapeutiche strutturate, le persone continuano a vivere un ampio spettro di sentimenti, spesso contrastanti. Queste emozioni non solo influenzano il loro benessere individuale, ma plasmano anche le dinamiche delle interazioni sociali, sottolineando l’importanza di riconoscere e dare spazio a tali esperienze emotive anche nei contesti più difficili. Infine, il sesto capitolo, a cura di Concetta Di Renzo (Dont), si ricollega in modo incisivo al tema dell’educazione emotiva affrontato nel primo capitolo. L’autrice ci invita a esplorare “La poesia che cura”, un viaggio motivante nel mondo della scrittura che può diventare uno strumento terapeutico all’interno delle strutture penitenziarie. La sua riflessione mette in luce il potere straordinario della poesia: non solo un mezzo per esprimere emozioni, ma un vero e proprio catalizzatore di trasformazione personale. La poesia può essere un modo per costruire un dialogo interno attraverso cui arrivare a una maggiore comprensione di sé e, in ultima analisi, a una riappropriazione della propria vita. Un capitolo che dimostra come le parole possano veicolare significati anche nei luoghi più bui, trasformando i sentimenti negativi in espressione e il disagio in crescita.

Nel libro si parla di come il carcere non riguardi solo i detenuti, ma anche le loro famiglie e gli operatori che vi lavorano. Secondo lei, quali riforme potrebbero migliorare la qualità di vita sia per i detenuti sia per chi lavora in questo ambiente?

L’esecuzione penale detentiva non si limita a colpire il detenuto, ma estende la sua ombra anche su coloro che non hanno alcuna responsabilità nella commissione del reato. Questo fenomeno è conosciuto come la “portata bilaterale” della pena: gli effetti della sanzione si ripercuotono su tutte le persone legate affettivamente al detenuto, rendendole destinatari indiretti della finalità punitiva. L’impatto sui familiari può essere devastante, costringendoli a ristrutturare le loro vite intorno a una nuova, difficile realtà. I figli, in particolare, sono i più vulnerabili. Oltre alla separazione forzata dal genitore, si trovano a dover rinunciare alle tipiche relazioni spontanee che normalmente intercorrono tra genitori e figli, vivendo i loro incontri in un contesto di controllo e sorveglianza. Dopo l’arresto, i rapporti familiari si trasformano in una sorta di rappresentazione teatrale, con la polizia penitenziaria e altre famiglie come spettatori. Questa drammatizzazione standardizza e falsifica le interazioni, alterando profondamente la loro natura e imponendo un peso emotivo che grava sulla salute psichica di tutti i coinvolti. Dall’altra parte, il personale penitenziario vive numerose difficoltà indotte dagli eccessivi carichi di lavoro, le turnazioni, le conflittualità e le implicazioni emotive, gli ambienti poco salutari, il mancato riconoscimento professionale, la mancanza di risorse e strumenti adeguati. Occorre tener conto che questo personale non si occupa semplicemente di “pratiche” e “fascicoli”, ma è in contatto quotidiano con una umanità viva, composta da uomini e donne che vivono le tensioni del carcere e le inquietudini più varie. Questo interscambio di esperienze influisce in modo significativo sul clima lavorativo. Le tensioni, l’ansia, i disagi e le sofferenze che i detenuti affrontano si riversano inevitabilmente anche sugli operatori, creando una spirale di stress e difficoltà che coinvolge entrambi. Per migliorare la qualità di vita all’interno delle strutture penitenziarie è necessario partire dai fattori basilari. Innanzitutto, necessitano ambienti puliti, organizzati e integri, in cui si respiri un clima di rispetto della persona e delle cose. Risposte sanitarie rapide e adeguate ai bisogni, poiché la persona detenuta non è nelle condizioni di autodeterminarsi nel fronteggiare i problemi di salute. Poi c’è il grande problema del lavoro e della formazione, a cui i detenuti devono potere accedere con criteri trasparenti e credibili, che non siano suscettibili di valutazioni discrezionali non preventivamente definite. I detenuti che entrano in carcere non devono percepire e sperimentare modelli di comportamenti simili a quelli vissuti precedentemente nell’illegalità o comunque in situazioni di marginalità che priva di ogni potere personale. È fondamentale che l’istituzione penitenziaria proponga regole chiare e ragionevoli, basate sul riconoscimento reciproco e sulla legalità delle decisioni e delle procedure. In questo modo, i detenuti possono apprendere e interiorizzare nuovi modelli comportamentali che favoriscano la responsabilizzazione e una progressiva emancipazione personale. Sia i detenuti che il personale devono sentirsi tutelati e garantiti nei loro diritti, in un clima di rispetto e dignità all’insegna della cultura del dialogo e dell’ascolto reciproco. Occorre una riforma del personale, basata sull’integrazione delle professionalità e su analoghe possibilità di carriera e benefit. La mancata omogeneità all’interno dell’organico, sia dal punto di vista giuridico che economico, determina divisioni, rivalità, conflitti e rivendicazioni che non giovano alla funzionalità del sistema e al corretto esercizio delle professionalità. Il numero degli operatori deve essere adeguato alla gestione delle strutture e alla realizzazione delle finalità istituzionali. A capo degli istituti penitenziari necessitano figure super partes che garantiscano tutte le componenti del sistema penitenziario per evitare che la funzione di controllo/sicurezza domini sull’orientamento costituzionale alla rieducazione. Un incentivo serio e ragionato alle misure alternative alla detenzione e l’individuazione di soluzioni adeguate alle problematiche di detenuti immigrati o affetti da dipendenze, anche creando partnership con organizzazioni non governative e comunità locali, potrebbero alleggerire le strutture per fornire supporto e risorse ai detenuti. Un punto cruciale è rappresentato dalle modalità di accompagnamento dei detenuti dimettenti: una seria e intelligente preparazione del rientro dei detenuti alla vita libera, che preveda forme di accompagnamento facilitanti, può ridurre la recidiva ed evitare forme di regressione che neutralizzano i progressi compiuti durante la carcerazione.

Ringraziamo Giovanna Testa per aver condiviso con noi le sue riflessioni e per averci permesso di addentrarci in una realtà tanto complessa quanto affascinante. “Tra le mura del carcere, torpore e passione” è un’opera che invita a riflettere su questioni delicate ma fondamentali, che toccano non solo la vita dei detenuti ma l’intera società. Siamo certi che il suo lavoro contribuirà ad aprire nuove prospettive di dialogo su questi temi.

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