Benvenuti sul blog del Gruppo Albatros! Oggi abbiamo il piacere di intervistare Cristiana Maria Piazza, autrice del libro autobiografico “C’era una volta una famiglia”. Questo affascinante excursus di vita familiare ci trasporta nelle vite del padre veneto e della madre sarda dell’autrice, offrendoci un quadro vivido e nostalgico delle abitudini e dello stile di vita del ‘900. Attraverso gli occhi di una bambina, ora diventata adulta, Cristiana Maria Piazza riesce a farci rivivere quei momenti magici e indimenticabili. Con una scrittura evocativa e ricca di dettagli, ci porta prima in Veneto, con le sue usanze, e poi in Sardegna, facendoci scoprire la lingua e le curiosità tipiche del luogo. Una serie di personaggi pittoreschi arricchisce i racconti, rendendoli piacevoli e a tratti persino comici. Il libro è un connubio di vicende serie e tragiche, alternato a momenti più spensierati e leggeri, che ritrae la società dell’epoca e le tradizioni di un tempo che l’autrice non ha mai dimenticato. Siamo lieti di avere Cristiana Maria Piazza con noi oggi per parlarci del suo libro e delle storie che lo compongono.
Cristiana, il tuo libro “C’era una volta una famiglia” offre un affascinante spaccato della vita familiare nel ‘900. Cosa ti ha ispirato a raccontare la storia della tua famiglia?
Raccontare la storia della mia famiglia più che una ispirazione è stato un bisogno. Nell’arco di dieci anni, dal 2000 al 2010, ho perso le persone che più avevo care al mondo, mia nonna materna, mio fratello e mio padre. Tutti e tre sono stati fondamentali e presenti nella mia vita per almeno 50 anni. Per ricordare Nonna iniziai a scrivere le storie che mi raccontava, e per ricordare mio fratello l’infanzia che vivemmo vicini e solidali, per ricordare mio padre, infine, gli episodi della sua vita, con cui inizio il libro. Ma fu per consolare mia madre quando rimase sola, devastate lei dalla perdita del figlio e io del fratello, con la quale passavo ore parlare quando andavo a trovarla, che pensai di mettere in un libro le parole e i pensieri di lei e i ricordi che mi suscitavano e che mi riportavano all’infanzia. Scrissi questo libro per mia madre, lei era la più sola alla fine, aveva perso anche il compagno di una vita. Senza mia madre questo libro non sarebbe mai stato scritto, era lei che conosceva le storie di tutti, anche della famiglia veneta di mio padre. Mia madre lesse il libro per prima, e trovò seccante che l’avessi fatto stampare senza la sua supervisione, notò errori e omissioni su cui operai alcune correzioni, e comunque pur con le critiche, le piacque molto, soprattutto condivideva l’ironia sui cognati veneti e sui vicini di casa sardi. Si rassegnò alla fine al fatto che i ricordi del libro erano i miei, non i suoi.

La tua narrazione è ricca di dettagli evocativi sia delle tradizioni venete che di quelle sarde. Come hai raccolto e selezionato questi ricordi e particolari?
Se la mia narrazione è così ricca di dettagli evocatori sia della tradizione veneta che sarda è perché la mia vita fu per almeno 20 anni, equamente divisa tra le due famiglie, la paterna veneta e predominante, la materna sarda. La mia vita si svolse in tempi, anni 50 e 60, in cui le culture di riferimento delle mie famiglie erano quanto di più diverso si potesse immaginare. Nata e vissuta stabilmente in Sardegna, tra casa e scuola, ho avuto lingua e cultura Sarda come imprinting. In forma più ridotta ho assimilato anche lingua e cultura veneta, passando sempre in Veneto i mesi estivi e anche invernali. Le informazioni e i personaggi li ho raccolti direttamente vivendoci insieme ma anche tramite le narrazioni e i racconti che provenivano dalla tradizione affabulatoria della parentela sarda. Io tendevo a non essere ciarliera né troppo vivace, anzi preferivo il silenzio e privilegiavo l’ascolto e l’osservazione. È chiaro che le prime osservazioni erano relative alla diversità di abitudini, usi e costumi, la lingua, la maniera di parlare, di mangiare, di comportamento degli adulti.
Nel libro, alterni momenti di grande serietà a episodi più leggeri e comici. Come sei riuscita a bilanciare queste diverse tonalità nella tua scrittura?
Il libro è scritto nel fluire dei ricordi, anche se il primo nucleo fu la raccolta delle storie e favole della Nonna sarda. Volli però ampliare il contesto nei ricordi della mia vita con mio fratello Eros, che aveva due anni e mezzo meno di me e per il quale nutrii sempre un affetto immenso e un senso di protezione perché da bambino era sempre un po’ malato, quando nacque mia madre non lo poté’ allattare e sopravvisse solo grazie al latte di capra ogni giorno portato fresco dai pastori e alle tisane delle donne di medicina, perché vivevamo nel villaggio dei lavoratori della centrale idroelettrica, senza che ci fosse vicino né un medico né una farmacia, e l’ospedale più vicino era a Nuoro, oltre 50 km di strada impervia .Eravamo entrambi malaticci, io ero asmatica, e costretti a letto passavamo il tempo io a leggere e lui a disegnare. Ambedue eravamo molto portati al riso e alla individuazione del comico se non del paradosso. E il comico scaturiva quasi sempre dalla rievocazione dei comportamenti dei parenti veneti. Certi loro modi di essere per noi bambini allevati da una nonna e madre sarda, in un austero e abbastanza silenzioso contesto matriarcale, e con pochi momenti dedicati allo svago, erano per noi veramente incomprensibili, inauditi sino all’assurdo. Era per noi impensabile che mia madre si potesse comportare come le cognate venete che uscivano per la spesa, al mercato si chiamavano tra loro con voci altissime, ciarlavano con tutti e al rientro si fermavano a bere un bianco in osteria, alle 11 del mattino. Mia nonna si copriva la testa ogni volta che usciva di casa, mia madre no, ma in tutta la loro vita non misero mai piede in osteria e tantomeno potevano pensare di bere vino di mattina, e sempre voce di conversazione e non esisteva neppure che si fermassero a parlare per la strada. Si parla di cose minime che però facevano per me molta differenza e stimolavano l’osservazione dell’incongruo che mi provocava sempre una silenziosa ilarità e generava la tendenza a cogliere il comico, o il paradosso anche nelle situazioni più serie e in automatico, la capacità di scrivere con leggerezza, stemperando così anche i drammi. Ho sviluppato il senso dell’umorismo che era più affine a mio padre, tendenzialmente portato alla allegria e il senso dell’ironia, che apparteneva a mia madre, che rideva poco ma che coglieva il ridicolo ed era spesso tagliente nelle sue acute osservazioni. Insomma, una vita da piangere e da ridere, il sunto della mia personale storia.
I personaggi che descrivi sono pittoreschi e vividi. C’è un personaggio in particolare a cui sei più legata o che ti ha influenzato maggiormente?
È chiaro che i personaggi più vividi e pittoreschi erano sicuramente i parenti veneti e quello che saltava subito agli occhi era la loro diversità, fisica in primo luogo, i veneti alti, biondi, occhi chiari, tendenti all’ adipe. I sardi meno alti, neri di occhi e capelli, olivastri di pelle, asciutti di corporatura. La parlata Veneta piena di toni striduli e accenti, uno strano miscuglio con l’italiano. La lingua sarda campidanese dei nonni, con certi suoni emessi anche dal naso, incomprensibile ma alternata, quando si rivolgevano a noi, a un italiano perfetto perché studiato a scuola. Il personaggio a cui sono più legata è la Nonna Sarda Vitalia Atzori, la quintessenza della matriarca e della grande madre, col potere sciamanico delle erbe e delle parole che generano la Magia, la guarigione e la difesa dal malocchio, “Is Brebus”. Parole scritte alla mia nascita, chiuse in un piccolo scapolare cucito ai vestitini e poi in un astuccio gioiello in argento, che possiedo. La persona che maggiormente ha influenzato la mia vita è poi stata la figlia Maria, mia madre, insegnante della scuola dell’infanzia, specializzata nel metodo Montessori, sempre sobriamente elegante e modernissima, nei primi anni 60 era una delle poche donne che guidavano l’automobile in Sardegna. Mi ha allevato con una certa severità e tenerezza, con poche effusioni, come fu allevata lei. Mi regalò sempre libri e volle che soprattutto studiassi per rendermi indipendente con un lavoro adeguato e rispettabile. Mai una donna deve dipendere da un uomo, anche se fosse il migliore, mi diceva. Mi insegnò il dovere del rispetto, soprattutto per me stessa, mi insegnò il rispetto per gli uomini ma non il dovere di assecondarli.
Qual è il messaggio principale che speri i lettori colgano da “C’era una volta una famiglia”?
Il messaggio che desidero che si colga pertanto è il valore della diversità e le mie famiglie erano quanto di più diverso si possa immaginare. Per etnia, per civiltà, per cultura, per lignaggio, per censo, per dimensione sociale e economica, per orientamento politico. Vivere con un confronto continuo tra Culture così diverse ha contribuito alla mia formazione alla mia crescita personale e alle mie scelte di vita. È stata la atavica cultura matriarcale trasmessami dalle donne che ha fatto la differenza. Ho avuto un padre Veneto, l’ho adorato, ho amato e amo le straordinarie bellezze delle sue Dolomiti e le meravigliose città dell’Italia del Nord Est, ma sento di essere esclusivamente e profondamente Sarda e il mio cuore è e sarà sempre nell’Isola di Sardegna .
Grazie, Cristiana, per aver condiviso con noi il tuo tempo e i tuoi pensieri sul tuo meraviglioso libro “C’era una volta una famiglia”. Le storie e i ricordi che hai raccontato sono un prezioso contributo alla memoria collettiva delle tradizioni italiane e alla comprensione della vita familiare nel ‘900. Speriamo che i nostri lettori siano ispirati a scoprire e apprezzare il tuo lavoro tanto quanto noi. Vi invitiamo tutti a leggere il libro per immergervi nelle emozionanti vicende della famiglia di Cristiana Maria Piazza. A presto, e grazie per aver seguito questa intervista sul blog del Gruppo Albatros!
