La vita è come una grande trama che il tempo tesse giorno per giorno. In alcuni punti l’ordito è fitto e forte, in altri si intravedono leggere imperfezioni e in altri ancora veri e propri strappi che lacerano il tessuto. L’anima è una grande sarta che cerca di rammendare gli strappi. I ricordi di momenti belli sono preziosi, perché in fondo è la nostalgia della felicità dei momenti sereni che abbiamo vissuto a darci l’energia e la forza di cercarla ancora. In queste pagine ci sono strappi e rammendi, esperienze di vita raccontate in modo intimo e profondo. Oggi abbiamo il piacere di intervistare Silvia Canuti, autrice del libro “Ho fatto spazio. Strappi di vita quotidiana di una donna”. Silvia ci offre uno sguardo autentico sulla sua vita, attraversata da vergogna e rabbia, povertà e dignità, perdita e malattia, ma anche dalla necessità di fare spazio per ritrovare se stessi.
Nel tuo libro “Ho fatto spazio”, condividi molte esperienze intense e difficili. Cosa ti ha spinto a volerle mettere su carta e condividerle con il pubblico?
E’ vero, nel mio libro racconto molte esperienze intense e difficili, l’ho fatto perché arrivata a 54 anni non volevo perdere senza dubbio più della metà della mia vita. Ho raccontato esperienze che mi hanno forgiata, cambiata, rimodellata alla vita. Ho deciso di condividere con il pubblico perché ho raggiunto una consapevolezza importante: quando raccontiamo noi stessi, quando siamo capaci di aprirci e far percepire cosa sono state quelle lacrime, come è stata quella gioia, quanto è stato faticoso quel dolore…noi non solo li riviviamo e quindi non li perdiamo, ma li regaliamo al pubblico, a tutti coloro che vorranno sfogliare quelle pagine e immergersi nelle stesse esperienze, vivere o rivivere le stesse emozione e dargli corpo, forma, parole. Ho scritto anche per non dimenticare, perché i miei figli non dimenticassero una volta che non vedranno più il mio volto con i segni del tempo che inesorabilmente si disegneranno, lo spero. Oggi è già domani in questa epoca, tutto passa in una rapidità impressionante, scrivere e leggere rimangono azioni che richiedono tempo, concentrazione, ispirazione, libertà e io desideravo lasciare questo tipo di segno di me.
Parli della vergogna e della rabbia, della povertà e della dignità. Come hai vissuto queste emozioni e situazioni nella tua quotidianità e come sei riuscita a superarle?
Parlo di vergogna e rabbia nel primo capitolo del mio libro raccontando un episodio particolarmente doloroso relativo agli abusi subiti da bambina ad opera di uno zio. E’ necessario collocare l’episodio nel tempo ovvero almeno 45 anni fa, quando neppure si usava la parola abuso, quindi immaginate una bambina di neppure dieci anni coinvolta in questi palpeggiamenti nelle parti intime ad opera di un anziano zio. In me ricordo aver vissuto la vergogna di ciò che accadeva perché pensavo che qualcosa di me avesse potuto scatenare i suoi comportamenti, a quegli episodi io risposi sempre con il silenzio, e nessun adulto accanto a me si accorse mai di nulla. Prima arrivò la vergogna di me stessa e poi la rabbia, l’oppormi, il divincolarmi per sfuggire fino a divenire capace di un ricatto enunciato. Queste emozioni così forti come la vergogna e la rabbia sono rimaste nel mio patrimonio perché ho fatto loro posto diventando grande e mettendomi poi ai piedi della bara di quell’uomo che da bambina mi fece così male, ho chiuso il cerchio, ho depositato nel mio cratere interno vergogna e rabbia nella loro versione più negativa, ho augurato a quel cadavere un posto all’inferno perché era lì il suo posto! Da quel momento nella vita non ho mai provato vergogna per me stessa, per le mie azioni o scelte, avevo fatto pace con quella brutta emozione; non è così per la rabbia, è una compagna che mi ha seguito tutto la vita ma in senso buono, ho provato rabbia per le ingiustizie, per tutte le volte in cui un mio progetto non è stato ammesso perché io lo ritenevo valido, fattibile, ho provato rabbia quando mi hanno fatto tacere senza darmi modo di argomentare, ho sempre provato rabbia per ogni evento negativo e inaspettato del mio quotidiano. È la prima reazione di ogni essere umano, la teoria della Kubler Ross ci insegna proprio che per arrivare ad accettare un evento negativo nella nostra vita è necessario passare per la rabbia, alla negazione, al patteggiamento, alla depressione e finalmente all’accettazione. Dietro una persona forte, c’è sempre una storia che ci ha dato due scelte: annegare o imparare a nuotare.
La perdita di un figlio è un tema molto delicato e doloroso. Come hai trovato la forza di raccontare questo dolore attraverso la scrittura?
La scrittura è un mezzo straordinario, ci impone di pensare e buttare su carta i pensieri, che rileggi e non ti convincono perché non provi sulla pelle quella esatta emozione, e così cambi le parole, i soggetti, i significati, le metafore, gli aggettivi e pian piano ti avvicini a quel dolore, a quella apnea che un giorno hai provato realmente, con il nodo in gola e l’ossigeno che non arriva…. la perdita di un figlio che, seppur ancora in grembo, lui c’era, era stato concepito con amore, voluto, desiderato, era lì, nel grembo e in un attimo non c’era più, svuotando il mio grembo e il mio cuore, la mia mente, i pensieri, le emozioni, i progetti. La scrittura è stato l’unico mezzo capace di farmi rivivere quel dolore, vedere, udire, toccare, camminare, sentire, ridere, amare… riuscire ad amalgamare le parole, quelle che si sentono sulla pelle, quelle che fanno male perché la pelle è troppo sottile, questo è la scrittura. Esprimere, dal latino esprimere ovvero premer fuori, spremere… e la vera scrittura autobiografica richiede coraggio dal latino habeo che vuol dire avere cuore, agire con il cuore, il coraggio diventa una forza che ci viene quando facciamo le cose a cui davvero teniamo. Scrivere di noi è alleggerire il cuore.

Nel libro affronti anche temi come il cancro e l’anoressia. In che modo queste esperienze hanno influenzato la tua percezione della vita e del “fare spazio” dentro di te?
Devo precisare che parlerò su due livelli diversi: il cancro l’ho provato sulla mia pelle mentre l’anoressia è stata una malattia che ha colpito mia figlia. E’ una distinzione necessaria perché le due malattie mi hanno colpito in modo diverso, l’una ha colpito il mio corpo, l’altra si è innescata avvolgendo il mio cuore e la mia testa. Sono due dolori diversi. Unici. Disperatamente devastanti, riuscire a fare spazio in me è stato difficilissimo e dolorosissimo. Per rimediare al cancro è stato necessario asportare utero, ovaie, tube e proseguire con la radioterapia. È stato disagevole e penoso fare spazio in me al cambiamento del mio corpo. Mi sono sentita monca, incompleta nonostante avessi quattro figli e 45 anni e quegli organi non mi sarebbero più stati necessari… eppure ho vissuto la depressione post-asportazione…qualcosa di me mancava, qualcosa di femminile mancava e sono stata invasa da profonda tristezza. Ecco come il cancro ha influenzato un periodo della mia vita, vi ho fatto spazio perché non ho tentennato un momento nel rispondere di sì all’intervento più sicuro e ho scoperto una parte di me molto determinata e capace di affrontare anche il peggio sulla mia pelle. L’anoressia è l’altro livello di racconto. Ha colpito mia figlia lentamente, molto lentamente fino a divenire un mostro che l’avvolgeva tutta. Ho sofferto la più grande impotenza della mia vita, le mie parole i miei gesti d’amore, quelli di forza, quelli in lacrime, nulla ha funzionato per arrestarla. Solo i ricoveri in centri specializzati hanno aiutato mia figlia a guardarsi in modo diverso, era lei che doveva avere una percezione di sé bella, aggraziata, piacevole nell’insieme della sua persona. Io vedevo solo le ossa che uscivano e i battiti cardiaci che diminuivano e la sua ostinazione a sminuzzare tutto nel piatto senza mangiare nulla… dovevamo fare spazio entrambe a cose diverse: io all’accettazione della malattia e al tempo per la ripresa; mia figlia al suo corpo e a chi voleva essere. Sono posti diversi sia nel cuore che nella testa, ci siamo riuscite entrambe e il nostro rapporto si è rafforzato, i nostri sorrisi hanno preso luce, i nostri occhi hanno asciugato lacrime reciproche per dar spazio a una intesa forte, fra donne.
“Fare spazio” è un concetto centrale nel tuo libro. Cosa significa per te e come pensi che possa essere applicato nella vita di chi legge il tuo libro?
Sì, fare spazio non è solo un concetto centrale del mio libro, è la mia vita. Non solo la capacità di raccontarmi in eventi così talvolta duri e delicati, bensì la capacità costante di leggere e rileggere quegli eventi, di attribuirgli un senso, spero mai scontato o riduttivo, e da lì assumere consapevolezza di sé e degli altri. Fare spazio richiede tempo e questo lo lascio ai lettori, trovare spazio per gli accadimenti della vita anche quelli più semplici che spesso vengono derubricati, cari lettori, richiede una sensibilità e la capacità di tendersi nel cercare di capire se stessi e ciò che ci sta accadendo, e gli altri e ciò in cui vogliamo o inevitabilmente ci troviamo a fare spazio per loro. Resistere ad aprire un varco è inutile, si strappano i lembi e la ferita si riempie di rabbia.
Silvia, grazie per aver condiviso con noi le tue esperienze e riflessioni profonde. “Ho fatto spazio” è un viaggio intenso e commovente attraverso le sfide della vita, e la tua testimonianza offre a tutti noi una prospettiva preziosa sulla resilienza e la capacità di ritrovare noi stessi anche nei momenti più difficili. Speriamo che i lettori del nostro blog trovino ispirazione nelle tue parole e nel tuo coraggio. Grazie ancora per essere stata con noi.
