Benvenuti a questa nuova intervista del nostro blog, oggi avremo il piacere di parlare con Giacomo R. Pierini. Siamo sicuri che questa sarà un’occasione unica per conoscere meglio questo talentuoso scrittore e scoprire qualcosa di più sulla sua nuova opera “E questo come la fa sentire?”.
Qual è stata l’ispirazione principale per creare i personaggi di Stefano e Matteo, e quale significato intendeva attribuire al loro essere la stessa persona?
L’idea nasce principalmente dal bisogno di alleggerire la tematica del dolore. Ho ritenuto che affiancare due personaggi così diversi, eppure in qualche modo legati, potesse essere il modo migliore per creare situazioni di contrasto comico utili al fine della storia stessa. Per quanto non direttamente volute, le ispirazioni di fatto sono molteplici, dal cinema alla letteratura, alla televisione, è pieno di co-protagonisti “mal assortiti”, come Felix (Jack Lemmon) e Oscar (Walter Matthau) ne “La strana coppia”, o Nervi (Luca Bizzarri) e Bitta (Paolo Kessisoglu) in “Camera Caffè”, o Don Chisciotte e Sancho Panza di Cervantes, per citarne alcuni. Il fatto poi di essere la stessa persona, non solo a volte accentua ancora di più la comicità di alcune situazioni, ma funge da vero e proprio catalizzatore della storia. È proprio l’essere la stessa persona, separati nient’altro che da una sottilissima barriera di coscienza individuale, che permette alla trama di aggrovigliarsi su sé stessa, non uscendo mai da quel senso di isolamento che Stefano ha voluto imprimere alla sua vita a causa dei dolori del passato. In ognuno di noi in fondo risiedono più anime, perfino contrastanti a volte, e benché nella maggior parte dei casi si rivelino semplicemente tramite dubbi, pentimenti, rimpianti per ciò che non abbiamo avuto il coraggio di fare, l’idea di palesare questa molteplicità dell’animo tramite un’altra figura senziente, come l’Armadillo di Zerocalcare, o addirittura il Grillo parlante di Pinocchio, imprime dunque alla storia una sfumatura intimista, senza tuttavia tralasciare la dinamicità degli scontri verbali, né quel senso di distanza dal resto del mondo che chiunque abbia un disagio interiore tende a provare.
Il protagonista, Stefano, è ossessionato da una routine che lo rassicura dopo la morte della sua ex-fidanzata. Come ha sviluppato questa tematica e quale messaggio voleva trasmettere sulla gestione del dolore e del cambiamento?
La routine che Stefano si impone non è che un modo rassicurante di nascondere la testa sotto la sabbia. In un momento in cui tutto sembra crollare, crearsi dei punti fermi, rappresenta per lui un’ancora di salvezza. La precisa scansione del tempo e il suo seguirla costantemente fa sì che Stefano possa concentrarsi soltanto su quello, senza dover per forza affrontare una realtà troppo dura da accettare. L’andare avanti, dopotutto, a volte risulta spaventoso; il pensiero che ci possa essere altro dolore oltre il nostro presente terrorizza, perciò tendiamo a negare il dolore già patito e proseguiamo facendo finta di niente. Dopotutto è molto più facile vivere in una realtà statica, uguale giorno dopo giorno, che non vivere l’ignoto del futuro con la coscienza di quanto di brutto è già accaduto nel passato. Nelle fasi di elaborazione del lutto, la negazione arriva al principio; è naturale che il nostro cervello tenti di tutelarci dallo shock inziale di una perdita importante, il problema è che Stefano, almeno al punto in cui lo troviamo all’inizio del racconto, non è mai andato oltre quel primo passo fisiologico. La sua reticenza al cambiamento col tempo si è sedimentata, ma qualcosa cambia nel corso della storia, e tutto il suo piccolo mondo immutabile inizia a crollare, pezzo dopo pezzo. Ed è questo il punto, per quanto si possa trovare difficoltà nell’andare avanti, la vita prima o poi ci porta ad uscire dalla palude in cui ci siamo impantanati, talvolta senza che si debba far niente, ma molto più spesso dobbiamo adoperarci perché questo accada, magari allungando la mano in direzione di qualcuno che ci possa aiutare.
La comparsa di Anita e il cambiamento nella quotidianità di Stefano portano confusione nella sua vita. Qual è il ruolo di Anita nella trama e come incide sul percorso di crescita e scoperta del protagonista?
Negli incendi ci sono tre elementi, il carburante, il comburente e l’innesco. Il carburante è la sostanza capace di infiammarsi, in questo caso la vita statica e ripetitiva di Stefano. Il comburente è ciò che permette lo sviluppo del calore, e qui entra in gioco Matteo e il suo lato paranoico. E Anita è l’innesco, quell’elemento senza il quale Stefano, probabilmente, sarebbe rimasto inerte e uguale a sé stesso. Anita permette di fatto quel cambiamento che Stefano stentava a trovare da solo, un incendio improvviso e imprevisto che gli stravolge la vita e brucia ogni cosa, spingendolo a confrontarsi con il proprio passato e il proprio dolore, trovando finalmente, dopo un travagliato percorso, una via d’uscita dalla gabbia in cui si era rinchiuso. Per quanto Anita non entri mai ufficialmente nella storia, se non come figura astratta, eterea e intangibile, il solo contatto a distanza e la successiva scomparsa creano in Stefano un moto rivoluzionario, o meglio, lo indirizzano verso la presa di coscienza di quel processo che inconsciamente era già cominciato, ma che ancora non voleva ammettere. Anita è dunque il pretesto che Stefano si crea autonomamente, prendendo spunto da reali accadimenti, per convincersi a compiere quel percorso che tanto lo spaventa, incamminandosi tortuosamente verso una sorta di guarigione.
La presenza di una pandemia sconosciuta nel contesto esterno al protagonista diventa una parte importante della storia. Come ha integrato questo elemento e quale impatto ha sulla vita di Stefano e sullo sviluppo della trama?
La pandemia arriva al momento giusto, diciamo. È l’ottima scusa in cui Stefano, senza rendersene conto, ripone le ultime speranze di poter evitare il cambiamento a cui si è sempre opposto; un ulteriore isolamento che si aggiunge a quello emotivo che ha già integrato da tempo nella propria vita. La malattia che viene descritta è terribile, molto più pericolosa e atroce di quella che tutti noi abbiamo vissuto nella realtà. Tuttavia, né Stefano, né Matteo sembrano preoccuparsi particolarmente delle conseguenze fisiche di ciò che vorrebbe dire contrarre quel virus. Hanno altro per la testa, e le quarantene, i divieti, gli obblighi, diventano spesso niente più che piccoli ostacoli perfetti per ripetere a sé stessi che se non agiscono è colpa delle circostanze. Nondimeno, il desiderio inconscio di abbandonare l’immobilità del proprio essere risulta più forte di qualunque riluttanza al cambiamento. Stefano e Matteo, dunque, la affrontano di petto, uscendo dal loro guscio per confrontarsi con le verità che pian piano si rivelano davanti ai loro occhi. Eppure, senza che se ne accorgano, quell’imprescindibile allontanamento forzato dal resto del mondo ha un impatto sulla percezione della realtà molto più importante di quello che credono per tutto il corso della narrazione. Il tempo scorre differentemente, l’essere ancora più soli innesca una un meccanismo che confonde il senso dei giorni, e soltanto la definitiva presa di coscienza dei propri sentimenti li porta infine a ristabilire la corretta visione di quanto accaduto.
Nel libro, si affrontano tematiche come l’ossessione e le teorie del complotto. Qual è stata la sua intenzione nel toccare questi argomenti e come ha voluto rappresentarli all’interno della storia di Stefano/Matteo?
Beh, fondamentalmente ritengo che dietro ad ogni teoria del complotto ci sia la paura per ciò che non si conosce, per le cose che non comprendiamo a pieno, e quando questa paura entra in contatto con la reticenza al voler sapere, al desiderio di approfondire, in qualche modo si crea un parallelismo con la difficoltà di affrontare i propri demoni, le cose che ci portiamo dentro e che cerchiamo di seppellire pur di non guardarle dritte in faccia, che poi è uno dei temi principali dell’intera opera. In questo senso, Matteo, che del complottismo ne ha fatto una ragione di vita, rappresenta la paura di Stefano di affrontare sé stesso e i propri lutti, tanto che se si guarda attentamente, le teorie che vengono snocciolate di tanto in tanto durante il racconto, non sono fini a sé stesse, bensì si legano in qualche modo al momento specifico della trama in cui sono inserite. Le stesse ossessioni poi, quella per il cibo, per il sesso telematico, o per l’assidua scansione dei propri ritmi settimanali, fanno parte di questo scenario. Il riempirsi di “malattie”, non è che un modo per nascondere i propri veri malanni interiori in fondo.
Ringraziamo Giacomo R. Pierini per averci dedicato del tempo, è stato un piacere parlare con lei e conoscere meglio il suo libro “E questo come la fa sentire?”. Speriamo che i nostri lettori possano avere l’opportunità di scoprirlo e di apprezzarlo come noi abbiamo fatto!
