GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: LA POESIA È CYBERPUNK – Stefania Lucchetti

Bentornati sul nostro spazio dedicato alla parola che resiste e sorprende. Oggi abbiamo il piacere di riabbracciare un’autrice già ospite del nostro blog, Stefania Lucchetti, per parlare della sua ultima sfida poetica: La poesia è cyberpunk. Una raccolta che trasforma la voce lirica in guerriera, dove poesia e tecnologia si intrecciano, tra codici, coscienza e desiderio, per raccontare un presente distopico che ci riguarda tutti. In questo libro bilingue, Stefania Lucchetti ci invita a esplorare una poesia che non si limita a descrivere il mondo, ma lo hacker-a: versi taglienti e delicati allo stesso tempo, che fondono umanesimo e algoritmi, ribellione e tenerezza, carne viva e intelligenza artificiale. Una poesia postumana, sensuale, radicale, capace di sfidare la retorica del progresso e di celebrare il riscatto dell’anima nel caos della vita contemporanea. Oggi la incontriamo per scoprire il percorso che l’ha portata a questa nuova frontiera poetica e per ascoltare dalla sua voce come la parola possa diventare un atto di resistenza, nel cuore di un mondo sempre più digitale e disumanizzante.

Nel titolo della tua silloge, la poesia viene accostata al cyberpunk, un genere che unisce tecnologia e marginalità, ribellione e consapevolezza. Come si incontrano, per te, questi due mondi apparentemente distanti?

La scelta di utilizzare nel titolo della silloge poesia e cyberpunk, oltre al richiamo ad una delle poesie incluse, esprime l’idea di collocare la parola poetica e la ribellione cyberpunk ad una stessa esigenza: dare voce all’umano in un contesto di accelerazione digitale e tecnologica. Il richiamo alla corrente letteraria e artistica cyberpunk – il futuro distopico, la prevalenza della tecnologia, la ribellione di alcuni al sistema disumanizzante – è sicuramente una metafora ma anche un paesaggio reale in cui la voce poetica si muove. Nella mia raccolta, la poesia non è solo contemplazione ma azione: entra in uno spazio dove tecnologia, dati e intelligenza artificiale non sono solo strumenti, ma protagonisti e specchi dell’identità. Così nasce un incontro: da un lato l’essenza umana che ricerca se stessa nella propria individualità, dall’altro la potenza della tecnologia, che tende a uniformare. La poesia interviene nel dialogo tra questi opposti, si fa “hacker della parola”, si inserisce nella rete non come spettatrice ma come forza attiva. In altre parole: la poesia diventa atto di ribellione, non solo estetico, ma esistenziale. La marginalità del genere cyberpunk – outsider, ribelle, diversa – è anche la marginalità sia della poesia come genere letterario rispetto ai generi commerciali, sia dell’umanità stessa che vuole ritrovare se stessa in un momento di perdita di identità rispetto alla preponderanza del digitale. In questo senso quindi la poesia e il cyberpunk si incontrano nel desiderio di reinventare la parola, l’identità, la presenza dell’umano nel mondo della standardizzazione digitale.

La tua scrittura alterna lingue e registri, creando una musicalità che sembra dialogare con le molte dimensioni del reale. In che modo la tua esperienza internazionale ha influenzato questa pluralità linguistica e poetica?

La pluralità linguistica è innanzitutto un riflesso della mia vita: sono nata in Italia ma ho vissuto per moltissimi anni all’estero tra Stati Uniti, Londra e Hong Kong.  Ho lavorato per tutta la mia carriera in ambiti internazionali: tutto questo mi ha portata a sentire due lingue come strumenti essenziali di una melodia, a utilizzare l’italiano e l’inglese non solo come traduzioni ma come vibrazioni diverse del pensiero e di conseguenza della stessa voce poetica.   Con questo doppio sguardo cerco di oscillare in modo fluido tra registro alto e colloquiale, tra lingua madre e lingua acquisita, tra l’espressione della fisicità ed emotività e l’ascesa intellettuale. Nel contesto di La poesia è cyberpunk, questo effetto pluralista serve a suggerire che nel mondo contemporaneo non esiste più una sola voce autoritaria: esistono molte trame linguistiche, molte disconnessioni e scarti tra il pensiero e la parola, tra l’ambiente digitale e la carne, tra l’individuo e il codice. Essere bilingue significa essere già ibrida – e questa ibridazione poetica mi interessa nel suo complesso: ingloba carne, emozione, pensiero, identità digitale e realtà umana, tecnologia e anima. In sintesi, il mio vissuto internazionale mi ha insegnato che la lingua non è più confinata a un luogo, a un tono, a un registro.  E la poesia diventa uno spazio di incontro di queste lingue e registri, un luogo dove la musicalità nasca dal contrasto e dalla compresenza.

In “La poesia è cyberpunk” la tecnologia non è solo un tema, ma una presenza viva, quasi un personaggio. Quale rapporto personale hai con l’universo digitale e quanto entra nella tua creazione poetica?

La tecnologia non è semplicemente strumento, ma ambiente – e come ogni ambiente abita e trasforma chi vi vive dentro. Nel mio quotidiano lavoro internazionale e nella mia vita personale, la rete, i dati, l’intelligenza artificiale, le interfacce digitali sono già parte integrante della mia esistenza. Così sono diventati parte della mia scrittura. In La poesia è cyberpunk, la tecnologia assume una presenza quasi corporea: è un corpo che respira, che osserva, che incide. È l’algoritmo che decide, la rete che avvolge, il dispositivo che connette – ma anche che isola. Non è solo metafora, è paesaggio. Questo “personaggio” digitale entra nella poesia come doppio, come specchio, come avversario e complice. Personalmente, mi trovo spesso a riflettere su come la tecnologia modelli l’io, la memoria, il corpo, la relazione. E nella poesia tento di lasciare che questi elementi si mostrino senza filtro. In definitiva: la tecnologia entra nella mia creazione come materia prima, come atmosfera, e come stanza in cui la voce poetica può – e deve – interrogarsi.

Nei tuoi versi emerge una tensione tra la fragilità dell’essere umano e la potenza delle macchine. Pensi che la poesia possa ancora essere un atto di resistenza nel mondo dell’intelligenza artificiale?

Sì, assolutamente. Credo che la poesia sia uno degli ultimi bastioni della soggettività, dell’umano non quantificabile, dell’esperienza che sfugge agli algoritmi. In un mondo in cui l’intelligenza artificiale misura, predice, ottimizza, la poesia rimane – o può restare – l’esperienza del dubbio, dell’ambiguità, del silenzio, dell’imperfezione. In “La poesia è cyberpunk” quella tensione tra materia e ascensione, tra vulnerabilità e potenza, che crea il sentire individuale è proprio il cuore del gesto poetico: è “resistere” alla pretesa del digitale di normalizzare, standardizzare, automatizzare l’umano. La poesia diventa atto di resistenza perché rifiuta la semplificazione, abbraccia la complessità, vive nella zona grigia – dove l’algoritmo può riprodurre, ma non può provare; dove la rete può collegare, ma non può sentire; dove l’algoritmo può contare e persino creare, ma non può piangere o ridere come un essere umano. Quindi sì, la poesia oggi è più che mai un gesto di ribellione, un reclamare lo spazio della carne, del corpo, dell’immaginazione e del pensiero – e in questo senso l’intelligenza artificiale non è solo una sfida, ma un personaggio nuovo sul quale la poesia la poesia può muoversi, interrogarsi, raccontare.

Hai attraversato diversi generi, dal saggio alla poesia, passando per il linguaggio della traduzione e della ricerca. Cosa rappresenta oggi per te la scrittura poetica, e che direzione senti che prenderà la tua voce nei prossimi progetti?

La scrittura poetica per me oggi rappresenta il luogo primario della libertà. Dopo anni di rigore professionale – giurisprudenza, diritto internazionale, saggi – tornare alla poesia significa tornare al cuore delle domande, al nucleo della domanda “cosa significa essere qui, ora, in questo corpo, in questa epoca”. In “La poesia è cyberpunk” ho voluto fare un salto: non solo riflettere, ma sperimentare, rompere le convenzioni, inserire la forma della poesia nel flusso del contemporaneo. Per il prossimo futuro, ho alcuni progetti sia di poesia sia di saggistica sempre mantenendo la mia voce nella sua essenza di attenzione, cura, profondità.  La mia ricerca è quella di far vibrare la voce umana – fragile, ribelle, viva – in un mondo che cambia.

Ringraziamo Stefania Lucchetti per averci condotto in questo viaggio tra versi e circuiti, emozione e algoritmo. La poesia è cyberpunk ci ricorda che anche nell’era più tecnologica resta spazio per la bellezza, per la ribellione gentile delle parole e per l’infinita capacità dell’essere umano di reinventarsi.
E voi, lettori, siete pronti a scoprire cosa accade quando la poesia entra nella rete e la rete diventa poesia?

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