GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: LETTERA RITROVATA PERCHÉ LA CARTA ERA UMIDA – Emanuele Pinto

Cari lettori, oggi vi invitiamo a intraprendere un viaggio poetico intenso e necessario insieme a Emanuele Pinto, autore della raccolta Lettera ritrovata perché la carta era umida. Un titolo evocativo che, come le sue poesie, è intriso di immagini potenti e riflessioni profonde sul mondo e sull’esistenza. Pinto ci accompagna in un percorso letterario in cui la parola diventa atto politico e visione interiore, sguardo lucido su realtà spesso taciute, e allo stesso tempo testimonianza emotiva, quasi carnale, del sentire umano. In questa intervista, abbiamo cercato di entrare nel cuore della sua scrittura e nel senso più ampio che l’autore attribuisce al fare poesia.

Come nasce il titolo Lettera ritrovata perché la carta era umida e quale significato simbolico porta con sé?

Sono sempre stato incuriosito da quei titoli che in qualche modo raccontano già qualcosa di per sé, che fungono come una sorta di porta semiaperta per un libro. Ad esempio, L’amore ai tempi del colera di Gabo Márquez, o Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo. Titoli che ti immergono già in una storia, senza troppi fronzoli. Certo, nel caso del titolo della mia opera la porta di ingresso pare più misteriosa, semichiusa, ma leggendo la poesia omonima credo che il mistero venga schiarito, almeno di un minimo. Ma non vi aspettate troppi chiarimenti. Il titolo vorrebbe essere un’aggiunta a ciò che racconta la poesia, non c’è un vero svelamento. E non per fare il misterioso, ma in fondo opere del genere non devono spiegazioni, si esprimono e basta – se ci riescono. Perché forse sono le emozioni che in fondo non si possono spiegare, quindi al massimo ci limitiamo a raccontarle. In ultimo, mi interessava proprio dare un titolo che si concentrasse su un particolare, anche per non caricarlo di troppe responsabilità. Poi, mi rendo conto che sia un titolo poco comune. È un po’ una scommessa, forse. Però non credo riceverà giudizi incerti. Secondo me o verrà dimenticato oppure rimarrà nella mente dei lettori. E devo dire la verità, mi entusiasma prendermi questo rischio.

La tua poesia sembra fondere intimismo e impegno civile. Qual è per te il ruolo della poesia nel raccontare la realtà?

Non credo che la poesia debba avere un ruolo preciso. La poesia, come l’arte tutta, non dovrebbe avere limiti di espressione. I limiti li dovrebbe fare a pezzi, anche talvolta scandalizzandoci, disturbandoci. Anzi, ben venga quando l’arte ci colpisce come un pugno nello stomaco o un mattone sulla testa. Personalmente preferisco l’arte che stordisce a quella che schiarisce. Credo che le consapevolezze che da essa potrebbero derivare poi, se si riesce a superare lo stordimento, potrebbero essere ancor più forti. E, appunto, se proprio volessimo dare un ruolo alla poesia, potrebbe essere quello di coltivare l’irrazionale, di cercare nuovi linguaggi, quindi di fuoriuscire dalle convenzioni della realtà. Anche quando tenta di esprimere aspetti del reale. La poesia non è saggistica, non è giornalismo (da nulla togliere a queste belle discipline). Deve forzare e spingere il racconto oltre, e non concentrarsi sulla lucidità dei fatti. Amo fare della poesia un impegno civile, ma non mi dispiace affatto adoperare i versi per indagare anche il nulla, gli amori, i vuoti dell’anima, i conflitti interiori e cose simili. E spesso dubito che queste tematiche siano sconnesse. D’altronde la mia raccolta cerca di raccontare proprio questo aspetto.

Nella raccolta si avverte una forte tensione verso il “dire la verità”. Quanto è stato difficile trovare una forma poetica per temi anche molto duri?

La difficoltà credo stia nel fatto che è una continua lotta nel cercare un equilibrio creativo che non sia però banale, monotono, né tantomeno autoriferito, pregno di intellettualismi. Tal volta mi chiedo: ne so abbastanza? Le mie idee sono davvero meritevoli di essere condivise? O sono state già pensate e ripetute da altri? Sto aggiungendo altro materiale inutile a questo mondo che già gronda di gente che vuole dire la sua? E poi, quando ci riesco, mi capita di superare queste incognite prendendo coscienza del fatto che nella maggior parte dei casi è il silenzio ad essere la strada corretta. Paradossalmente non dire è quel che mi porta a scrivere. Come un esercizio, una gavetta (per quanto odi questa parola). Dopo un certo numero di volte in cui avrei potuto dire, scrivere qualcosa, e ho scelto di non farlo, allora poi sono pronto a farlo. E lo faccio. Perché alla fine scrivere per me è un bisogno vitale. Quindi anche un po’ un processo egoistico, in un certo senso. Ma mi sforzo di farlo sempre non dimenticando che le mie parole sono superflue, non sono necessarie, sono altro caos che si aggiunge allo sciame informativo e iperproduttivo dei giorni nostri. E la speranza più grande che ho è che ciò che scrivo, più che aggiungere, possa togliere, possa creare un po’ di silenzio qua e là, e dare magari qualche momento di sollievo a qualcuno afflitto dalle troppe parole.

Hai scelto di tornare in Calabria dopo un periodo al Nord. In che modo la tua terra d’origine influisce sulla tua scrittura?

Questa credo sia la domanda più semplice a cui rispondere. Quando abitavo a Verona – una città che comunque mi ha dato tanto – sentivo che mi stavo spegnendo lentamente. Non avevo mai provato nulla del genere prima. E anche la mia creatività ne era gravemente colpita. Scrivere era diventato quasi impossibile. E questa cosa mi ossessionava. Mi faceva sentire perduto. Era come essere svuotato, senza carburante. Non saprei come dirlo bene. All’inizio pensavo che i motivi di tutto ciò fossero altri. Ma col tempo ho capito che il motivo primario era che le mie radici non avevano più la loro linfa vitale. La Calabria mi mancava come una persona amata da cui sei costretto a separarti. E forse anche di più. Credo sia una cosa molto comune in fondo. Soprattutto per noi del sud che siamo stati educati (malamente) ad abbandonare le nostre terre per cercare fortuna altrove. Pensando che decisioni individuali possano essere una qualche soluzione ai problemi sociali che ci affliggono e che andrebbero invece affrontati insieme, innanzi tutto restando. Ma al di là di questo, ora so che senza la Calabria per me non c’è scrittura, e quindi non può esserci vita. Io ho sempre visto il mestiere dello scrittore come quello dell’artigiano. C’è una materia grezza che con varie tecniche, passione e cura diventa opera. Per me la materia grezza, senza cui non riuscirei ad assemblare niente, sono i profumi della mia terra, quei suoni e quelle voci familiari, questo mare, queste montagne, queste strade. Anche i drammi che la caratterizzano, le sfide e le incertezze. La Calabria, insomma, nel suo bene e nel suo male, è il mio studio, la mia enorme scrivania. Il posto in cui rifugiarmi per sentirmi abbastanza al sicuro, e allo stesso tempo abbastanza in connessione con i miei conflitti, per poter scrivere.

Oltre che poeta, sei anche attivista. Quanto si influenzano reciprocamente la tua attività sociale e la tua espressione letteraria?

Sinceramente io preferisco considerarmi scrittore. Anche perché i versi non sono l’unica tecnica con cui lavoro. Per quanto nel mio caso siano stati i primi ad arrivare alla pubblicazione. Detto questo, ho sempre notato una particolare connessione tra la poesia e l’impegno civile. Ora, senza volermi accostare a grandi figure letterarie del passato – per carità – sono sempre stato attratto da quei poeti che erano anche, oggi diremmo, grandi attivisti: Hikmet, Neruda, Panagulis. Quasi come se la poesia spingesse così tanto in là le menti, aiutasse così tanto a ricercare nuovi linguaggi, da far fiutare ai poeti ciò che non va nelle società prima di chiunque altro. Ora, non credo questo sia il mio caso, sinceramente. Non oso darmi questo ruolo. Però mi sembra che, per quanto coltivi l’irrazionale, la poesia abbia come il potere di rafforzare la volontà di resistenza, o sia come alimentata da essa. Pensiamo alla tradizione della poesia palestinese. I poeti palestinesi a mio parere sono tra i migliori della letteratura contemporanea proprio perché incarnano a pieno lo sposalizio tra poesia e resistenza. La resistenza rafforza la poesia, anche quando la poesia non è prettamente politica. Hikmet, ad esempio, anche quando non scrive di politica, si esprime politicamente. La politica è lì, nelle sue pagine, si fiuta fra le sillabe, pulsa nelle sue parole, pure quando queste descrivono cose come la natura o le donne da lui amate. I suoi versi volano liberi abbattono facilmente muri e sbarre perfino quando il corpo del poeta è costretto in carcere. Anche a costo di scrivere col sangue. Come nel caso di Panagulis quando si trovava in isolamento. Secondo me la poesia oggi è resistenza anche quando non pretende di resistere. Perché in una società come la nostra, incasellante, iperperformativa e ossessionata dal progettare e dagli obbiettivi da raggiungere, l’irrazionale e la forza autenticamente alternativa della poesia, il suo essere disinteressata, sono un qualcosa di resistente di per sé. La poesia si impone, anche senza volerlo, e non può essere sconfitta dai sistemi di oppressione come il capitalismo, perché, come diceva lo zio Pier (Pasolini), è un prodotto inconsumabile. E credo lo rimarrà per sempre. Almeno finché ci sarà qualcuno a leggerla o a recitarla.

Con Lettera ritrovata perché la carta era umida, Emanuele Pinto ci ricorda quanto la poesia possa essere uno strumento potente di consapevolezza, un modo per non dimenticare e per restare umani. Le sue parole ci spingono a rallentare, a fermarci, a riflettere. Ringraziamo Emanuele per aver condiviso con noi il senso profondo della sua opera e vi invitiamo, cari lettori, a lasciarvi attraversare da questi versi, con la mente aperta e il cuore pronto ad accogliere.

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