GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: Storia di Antonio Della Portella – Parte 3° – Annibale Falato

Oggi siamo felici di avere con noi Annibale Falato, autore della trilogia “Storia di Antonio della Portella”, con cui siamo giunti alla terza e conclusiva parte di un’avventura che attraversa decenni di vicissitudini familiari, sfide personali e dilemmi morali. In questa nuova e ultima fase, il destino di Antonio e della sua famiglia subisce un’imprevedibile svolta: le forze che lo hanno plasmato fin dall’infanzia lo trascinano verso una sorta di resa dei conti, in un racconto intriso di pathos, colpi di scena e riflessioni profonde su destino, libero arbitrio e provvidenza. Siamo qui per scoprire di più sull’ispirazione e sul processo di scrittura di Falato e per comprendere cosa significhi, per lui e per noi lettori, chiudere questo capitolo.

Annibale, ci racconti cosa ha ispirato la creazione del personaggio di Antonio della Portella e quali sono i tratti che, secondo lei, lo rendono un protagonista tanto complesso?

Quando ero piccolo, al paese, si aveva l’abitudine la sera di stare tutti insieme intorno al fuoco d’inverno e sull’aia d’estate. In quelle occasioni noi bambini sentivamo raccontare tante storie. A me piaceva tanto ascoltare i grandi e, con avidità, incameravo i loro racconti facendo lavorare la fantasia per cercare di immaginare i posti e le situazioni che sentivo nominare.  Questa passione mi è rimasta anche da grande e non perdevo occasione di parlare con le persone anziane per cercare di carpire parte dei loro ricordi e farli miei. Tragedie familiari, storie di emigrazione, faide, problemi giudiziari, racconti di guerra e divertenti aneddoti erano gli argomenti più trattati.  In particolare, mi aveva colpito il racconto di un bambino, rimasto orfano in giovanissima età, del quale, dopo essere andato in Germania con uno zio che lo aveva adottato, non se ne era saputo più nulla. Più volte la mia mente si era spinta, con l’immaginazione, a pensare alla storia e alla sorte di questo ragazzino con il quale, oramai, mi immedesimavo. Ed ecco, allora, che, aprendo tutti i cassetti della memoria e calandomi completamente nel personaggio, ho scritto quella che potrebbe essere la sua storia.  Nel suo peregrinare, Antonio si trova ad avere a che fare con persone e situazioni complicate e difficili. Ha vissuto al paese fino all’età di dieci anni acquisendo quella mentalità che mai si riuscirà a scrollare di dosso ma dovrà crescere e imparare ad affrontare la vita nella giusta maniera a seconda delle circostanze. Il padre adottivo tedesco, con un oscuro passato alle spalle, e un prete gesuita italiano, ognuno a suo modo, cercheranno di indirizzarlo nelle scelte. Sarà una continua lotta, interiore ed esteriore, tra il bene e il male. Una serie di avvenimenti, avvincenti e coinvolgenti, difficili rapporti con il padre adottivo, poteri forti, organizzazioni internazionali e personaggi di diversa natura fanno da cornice a misteri da svelare ed enigmi da sciogliere. Tutto questo comporterà, necessariamente, una trasformazione nel modo di pensare del protagonista; non più semplice e lineare ma complesso e attento. La seconda parte del racconto è quella formativa. Antonio, nonostante sia diventato un medico, sente la necessità di trovare una propria dimensione. Pertanto, si troverà a fare, volente o nolente, una serie di esperienze, sia sul piano professionale che su quello umano, più o meno traumatiche, che lo segneranno profondamente tanto da metterlo profondamente in crisi. Verrà irretito dalla vita facile da una parte ma, nello stesso tempo, messo in guardia dai frutti velenosi di questa dall’altra. Proverà delusione, dolore e sofferenza interiore. Subirà inganni e prepotenze ma, alla fine, quando tutto sembrava perduto, grazie alla sua indole, buona e leale, riuscirà ad uscirne fuori.

Questa terza parte della storia è particolarmente intensa e riflessiva. Come è stato scrivere la “nemesi” di Antonio e quali emozioni ha vissuto nel dar forma al capitolo conclusivo della sua vita?

Nella terza ed ultima parte Antonio, oltre che con gli avvenimenti incalzanti che si succedono, direttamente o indirettamente, entra in contatto con parti dell’umanità, decisamente discutibili, a lui, fino a quel momento, sconosciute. Questi incontri, in qualche maniera, andranno a minare le sue convinzioni sia intellettuali che religiose. Ma le sue salde radici e la sua semplicità d’animo gli daranno modo di non farsi soggiogare o manipolare. Immedesimandomi in Antonio, è ovvio che le sensazioni e le emozioni che lui prova e che vengono descritte, sono le mie. Il protagonista, per una serie di circostanze, va a scontrarsi con poteri troppo forti per lui e, di conseguenza, non ha la possibilità e la forza sufficiente per combatterli. Ma, ciò nonostante, spinto dal suo idealismo, lo farà ugualmente come un novello Don Chisciotte. Tuttavia, solo con l’aiuto casuale di altre persone riuscirà ad ottenere il risultato che si era prefisso. In pratica Antonio, così come gli altri con i quali ha a che fare, non è altro che uno strumento della Divina Provvidenza che, come per tutti, fa in modo che, in qualche maniera, si realizzi quello che è già stato scritto che avvenga. Nella terza ed ultima parte si ha modo di scoprire chiaramente, in tutti i suoi aspetti, l’animo del protagonista. Sempre combattuto tra il bene ed il male e tra scelte da fare per sé e, a volte, per gli altri. Alla fine, nonostante gli apparenti buoni risultati ottenuti, gli rimarrà sempre il dubbio in ordine alla bontà delle sue azioni.  Per tale motivo sa che dovrà pagare un prezzo. Come Lancillotto che, avendo perso la possibilità di trovare il Sacro Graal a causa di un peccato si ritira in un convento a fare l’eremita, così Antonio sarà destinato alla solitudine. La sua vita è stata troppo intensa e, pertanto, non poteva non avere commettere degli errori anche se, il più delle volte, in buona fede. L’ultimo capitolo è particolarmente intenso e, in qualche modo, struggente. A me che sono l’autore, fa commuovere ogni volta che lo leggo.

Foto Annibale

Nei suoi romanzi, i temi del destino e della Divina Provvidenza sono fondamentali. In che modo questi elementi si sono sviluppati nel corso della trilogia e quale messaggio desidera trasmettere attraverso di essi?

Nulla avviene per caso. Il destino di ognuno di noi è già scritto. Il libero arbitrio può essere esercitato solo sulle vie da seguire per raggiungere quello che è già stabilito e che non può essere modificato. Antonio è stato il protagonista ma anche il soggetto passivo dell’intera trilogia. Fin da bambino è stato costretto a subire le conseguenze di atti e fatti a lui estranei. Resosi conto di ciò, non ha potuto fare altro che adeguarcisi. Se le cose fossero andate in un certo modo, sarebbe diventato un contadino come suo padre. Non si sarebbe mai spostato dal suo paese e avrebbe avuto una sua famiglia. Invece il destino ha stabilito per lui tutt’altro. Ha vissuto in seno ad una famiglia adottiva; si è trovato in situazione drammatiche e pericolose; ha potuto studiare ed è riuscito a diventare un medico; ha fatto tantissime esperienze sia sul piano professionale che su quello sentimentale; ha subito cocenti delusioni; ha sofferto profondamente; ha, in più occasioni, temuto per la sua vita; ha incontrato tante persone, ognuna delle quali gli ha trasmesso qualcosa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore smarrimento, è riuscito ad avere sempre la speranza che solo la fede riesce a dare.  Quello che vorrei trasmettere ai lettori è che, a prescindere da tutto, dobbiamo sempre tenere presente nella nostra mente e nella nostra anima il messaggio di amore e di pace che proviene dal Vangelo, presente solo nella religione cristiana. Da ciò proviene, come corollario, la speranza nella vita eterna ma non intesa come nuova vita terrena ma come ricongiungimento dell’anima di ognuno di noi a quella immensa, luminosa e misericordiosa del creatore.

L’intera trilogia di Antonio della Portella tocca corde profonde del rapporto umano con il bene e il male. Che ruolo ha avuto la sua esperienza personale nella stesura di queste vicende, e cosa spera che i lettori possano trarre dalla lettura?

Fin dalla nascita ci sentiamo dire, magari dai nostri genitori, cosa è bene e cosa è male. Cresciamo in questa dicotomia. Alcuni non ci fanno caso ma altri, come me, ci badano e anche parecchio. In genere, non si è mai capita la vera ragione, tutto ciò che da piacere è male mentre tutto ciò che è sacrificio e abnegazione è bene. Quindi, per convenzione, il piacere è assimilato male mentre la virtù al bene. Ma tutto questo è veramente difficile da comprendere in quanto, a pensarci bene, dovrebbe essere l’esatto contrario. È preferibile una giornata fredda e piovosa o una bella e assolata? Non mi pare possano esserci dubbi sulla risposta. Da ciò ne deriva che il male ed il bene non sono altro che concetti convenzionali derivati dalle tradizioni e dalla cultura religiosa. Altra cosa è il nemine laedere, base del vivere civile. È evidente che danneggiare qualcuno è male ma non si vede il motivo per il quale dovrebbe essere altrettanto ricercare il proprio piacere senza fare del male ad alcuno.  Tuttavia, Antonio, pregno dei principi acquisiti nel periodo dell’infanzia al suo paese, risente di tale netta distinzione. Due persone nella sua vita, che rappresenteranno le due facce della realtà, saranno determinanti nelle sue scelte: Ludwig Von Steiner, il padre adottivo, e Padre Saverio, un gesuita che diventerà il suo padre spirituale. Entrambi, a loro modo, cercano di guidarlo e proteggerlo. E così è capitato a me, anche se in maniera diversa; un padre autoritario e severo che ha sempre preteso di dirmi cosa era bene e cosa era male e uno zio, comprensivo e tollerante, che mi ha sempre spinto a ragionare con la mia testa e a decidere da solo cosa fosse per me bene o male. Tra queste due forze, tra loro decisamente contrastanti, ho cercato di trovare il mio equilibrio e fare le mie scelte. Quello che vorrei trasmettere, comunque, è che, qualsiasi cosa ci possa accadere, non bisogna mai disperare. La vita, nella sua varietà, è bella e, come tale, è un dono che va apprezzato e goduto.

Dopo tanti anni nella professione forense, si è avvicinato relativamente tardi alla scrittura. Come descriverebbe il suo percorso da avvocato a scrittore, e cosa rappresenta per lei la scrittura oggi?

In quarantenni circa di professione, ho consumato fiumi di inchiostro per scrivere citazioni, comparse, memorie, conclusionali ecc. Nei primi anni, pensando di fare bene, redigevo corposi scritti difensivi utilizzando spesso periodi lunghi e complessi.  Una volta, dopo che era stata emessa la sentenza, andando a ritirare dal fascicolo di ufficio il mio fascicolo di parte, all’interno del quale avevo depositato una lunga comparsa conclusionale (venti pagine circa), mi accorsi che questa era intonsa.  In pratica il magistrato, preso atto della lunghezza eccessiva e della verbosità dello scritto, aveva ben pesato di non leggerlo proprio basando la sua sentenza sulle sole risultanze istruttorie. Da quel momento capii che, se volevo che i giudici leggessero e capissero quello che scrivevo, avrei dovuto acquisire un metodo di scrittura diverso: scorrevole e succinto.  Così ho fatto e devo dire che i risultati si sono fatti subito vedere. Nel 2017, volendo dare un contributo a dei ricordi di infanzia pubblicati da alcuni amici su Facebook, iniziavo a scrivere delle brevi storie. Trovandole particolarmente interessanti, gli amici che le leggevano mi hanno incoraggiato a continuare e così le storie che scrivevo diventavano sempre più lunghe tanto da doverle suddividere in più parti. Alla fine, una di queste, protrattasi oltre modo, è diventata un romanzo che, sottoposto all’esame della commissione editoriale della Casa editrice Albatros è stato giudicato: “particolarmente adatto all’intrattenimento” e, pertanto, da pubblicare. Da quel momento ho iniziato a dedicare sempre più tempo alla scrittura, specie la notte, quando posso concentrarmi. Mi sono accorto che scrivere mi piaceva tantissimo e mi dava molta soddisfazione; era come vivere un’altra vita. Nell’arco di tre anni, mi sono stati pubblicati cinque romanzi e, attualmente, è in cantiere un sesto. Il metodo che uso è molto semplice. Non predispongo alcun “plot” prima di iniziare a scrivere. Mi metto davanti al computer e, dopo essermi immedesimato nel personaggio e nel periodo storico, vado avanti lasciando che il racconto si sviluppi da sé. Per fare questo, però, è necessario avere vissuto in quel periodo. Una mia vecchia professoressa di lettere del liceo, in relazione allo scrivere, ci diceva sempre di farlo solo su quello che conoscevamo a fondo e così ho fatto. Alla scrittura, secondo il mio parere, possono accedere tutti. In ognuno di noi ci sono storie e momenti di vita da raccontare; tutto sta nel riuscire a tirarle fuori.

Grazie, Annibale, per aver condiviso con noi le sue riflessioni su questa ultima parte di “Storia di Antonio della Portella”. La sua narrazione, così profonda e ricca di sfumature, ci ha regalato un viaggio unico, tra emozioni contrastanti e personaggi indimenticabili. Siamo certi che anche quest’ultimo capitolo saprà toccare il cuore dei lettori, lasciando il segno così come i precedenti. Non vediamo l’ora di scoprire quale sarà il prossimo progetto che vorrà condividere con noi.

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