GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: Il barone di Palagonia – Giuseppe Saglimbeni

Benvenuti lettori del Blog del Gruppo Albatros! Oggi siamo felici di ospitare Giuseppe Saglimbeni, l’autore di questo affresco letterario che è “Il barone di Palagonia”. In questo romanzo, Giuseppe Saglimbeni ci trasporta attraverso le vicende di Francesco, un personaggio che incarna la complessità e la profondità dell’animo umano. Con uno stile impeccabile, l’autore ci guida attraverso un viaggio emozionante, dalle campagne siciliane alla trincea della Grande Guerra, offrendoci un ritratto vivo e coinvolgente di un uomo che lotta per trovare il suo posto nel mondo.

Giuseppe, cosa ti ha ispirato a creare il personaggio di Francesco e a raccontare la sua storia?

Scrivere un libro e conseguentemente pubblicarlo è stato un’aspirazione, un sogno che ho coltivato fin da ragazzo. Avevo appena compiuto diciotto anni e studiavo per l’esame orale della maturità. La notizia ad un tg di un morto ammazzato in un paesino vicino a dove vivevo, mi catapulta immediatamente in una dimensione in cui le vicende sentite diventano parte integrante di una storia ambientata tra gli anni 20 e gli anni 30 del secolo scorso. Quel pomeriggio di studi praticamente finì lì. In compenso iniziò qualcosa che nei mesi successivi troverà forma nel canovaccio di un romanzo e nella stesura del primo capitolo. Poi basta. Fino all’età di venticinque, ventisei anni ho sempre scritto qualcosa: capitoli di romanzi, racconti, soggetti: non sono, però, riuscito a completare niente. La vita, da un lato e per diversi anni, mi ha portato lontano da quei progetti, in cambio, però, mi ha lasciato quel sogno, quel desiderio che è stato come una sorta di fuoco vivo sotto uno strato di cenere. Il 19 marzo del 2020 i titolari dell’azienda in cui lavoro annunciavano che saremmo tutti andati in cassa integrazione causa Covid. Il 19 marzo è la festa di san Giuseppe, il mio santo, la Festa del Papà. Quel giorno però tutto fu tranne che un giorno di festa! Arrabbiato, deluso, frustrato torno a casa con la consapevolezza che nei mesi avvenire sarebbe stata dura perché sarebbe passato un bel po’ di tempo prima che lo stato ci avrebbe risarcito. A cena annuncio alla mia famiglia: da domani inizio a scrivere. E non mi sono fermato fino al 5 giungo del 2022 quando ho scritto l’ultima parola del Barone di Palagonia. L’ho scritto a penna e ho riempito ventotto quaderni. Ogni tot pagine ricopiavo al PC, cercando di ordinarlo in capitoli e paragrafi. Il libro scritto trae linfa vitale da quel pomeriggio di inizio luglio del 1990 e da quello che venne fuori dopo, perché in parte ne riprende i luoghi e alcune situazioni. Ma Il Barone è un’altra storia e quello pensato e abbozzato ormai più di trent’anni fa prima o poi prenderà forma. Il personaggio di Francesco è venuto a trovarmi circa sette anni fa. Mi ha raccontato le vicissitudini della sua vita facendomi capire che la propria realizzazione partiva da un profondo senso del dovere per evolvere in scelte coraggiose e perché no, anche controcorrente. Ho visto il bambino Francesco lasciare la casa alla morte del padre ed essere condotto in un lontano Feudo. L’ho visto crescere, diventare amico del figlio del barone, l’ho visto prendersi una cotta tremenda per la baronessina. Poi ho sofferto con lui in guerra, quella grande, tra trincee e ospedaletti, tra feriti e morti ammazzati. Ha incontrato il mio bisnonno morto nel 1916 e lì, ho lasciato che la fantasia abbracciasse per un po’ la realtà. Chi ha letto il libro sa del portafogli di Mauro, probabilmente non sa che è vero, c’è ancora e che lo conservo io per tutta la famiglia, così come non sa che sono stato io a portare un fiore nella sua tomba a distanza di quasi cento anni. Francesco uomo mi ha fatto capire che dietro uno sguardo ci può essere tanto di più, che alle volte gli occhi sono uno strumento dell’anima che ci fa riconoscere nell’altra persona ciò che i sensi e l’intelletto non riescono. Francesco mi ha aiutato a credere nel sogno di scrivere il libro con la stessa forza in cui lui ha creduto nell’amore per una donna diversa da quella che tutti credevano. Quindi posso dire che non sono stato io ispirato a creare Francesco ma è stato lui che ha scelto me come suo autore mostrandomi passo dopo passo la strada. 

“Il barone di Palagonia” attraversa diverse epoche e ambienti sociali. Come hai affrontato la sfida di rappresentare così tanti cambiamenti storici e culturali?

Il libro copre un arco temporale che va dalla primavera del 1906 all’antivigilia di Natale del 1938. La prima scena, l’incipit, vede una donna, la madre di Francesco, che non si capacita di come sia morto il marito, così forte, così energico, l’ultima… non vorrete mica che vi vada a dire come finisce e farvi perdere il piacere di leggere “il barone” fino in fondo! Comunque, che finisce bene si può dire. Il libro è diviso in tre parti: il Feudo, la grande guerra, 1938. Quando ho iniziato ad abbozzare il libro, quindi nei miei primi giorni di scrittura, l’incipit doveva cronologicamente stare nel 1938 e corrispondere esattamente al paragrafo che poi ho intitolato: “due occhi bellissimi”. La mia prima idea era quella di svolgere in un presente la trama del libro per poi tornare attraverso racconti, flashback o semplicemente attraverso espedienti diacronici, nel passato. Confesso che dopo quasi trent’anni che non scrivevo neppure una lettera, la cosa mi è venuta difficile. Ho iniziato allora a scrivere i capitoli partendo da Francesco bambino e pian piano farlo crescere. L’idea era quella di scrivere tutto e poi assembleare con vari stratagemmi le varie parti. Solo che arrivato ad un certo punto della scrittura, quel modo di incedere, quel raccontare il personaggio che cresceva mi è piaciuto ed allora ho deciso nel costruire il libro così come poi è stato dato alle stampe. Molte parti del libro in principio le avevo abbozzante nella mia mente, altre sono venute fuori in corso di scrittura del canovaccio; altre ancora durante la scrittura vera e propria. C’è stato anche qualcosa di previsto che poi non è stato inserito perché l’ho ritenuto superfluo, ridondante o semplicemente un allungamento inutile della trama. Avevo inquadrato nel periodo storico il libro, con il passaggio dai primi del ‘900 fino a quasi gli anni 40. Una volta fatto il canovaccio ho fatto le mie ricerche per trovare le cosiddette pezze d’appoggio agli avvenimenti che hanno fatto di contorno alla trama principale. In molti casi sono stato abbastanza puntuale in altri mi sono preso qualche licenza. Ad esempio, nel paragrafo “la luce” la cameriera del baronello Giavanni rimane incantata dal vedere una lampada ad energia elettrica e “gioca” con la manopola per accendere e spegnere la luce. Ecco, dovevo essere sicuro che in quell’anno e in quella parte di Sicilia la corrente elettrica poteva esserci. Al contrario mi sono inventato una processione di Pasqua, in realtà una cosa analoga era stata soppressa nel 1927, perché molto funzionale al racconto. Per le vicende della grande guerra ho cercato di seguire le vicende della brigata Etna e fino a Caporetto sono stato assai fedele ai resoconti storici. Da un punto di vista del linguaggio ho fatto una scelta ben precisa usando il fascistissimo voi soltanto nelle vicende relative a quel periodo mentre ho usato il lei negli altri. In realtà il voi si usava anche prima in Sicilia o comunque nell’Italia meridionale, ma volutamente ho voluto diversificare per caratterizzare un preciso periodo storico e di conseguenza una parte del libro.

Uno dei temi centrali del tuo romanzo è il concetto di riscatto personale. Cosa ti ha spinto a esplorare questo tema e come credi che si relazioni alla vita di Francesco?

Fin dalla stesura del canovaccio ho avuto sempre in mente l’idea che i miei personaggi dovevano essere autentici e in un certo qual modo la loro vita essere verosimile. Ricordo una prefazione su una vecchissima edizione de “Il fu Mattia Pascal” dove Pirandello rispondeva alle critiche di chi diceva che il suo personaggio era inverosimile, citando un paio di storie che erano capitate in giro per il mondo. Quindi assai spesso la realtà supera e di gran lunga la fantasia. Perché scrivo questo in relazione a questa domanda? Perché a mio modo di vedere né in Francesco né in altri personaggi del libro c’è nella loro vita la ricerca di un riscatto personale e che quindi questo tema non è centrale nel romanzo. La vita di Francesco, da quando lo vediamo protagonista delle pagine del romanzo, gira attorno ad un concetto preciso: fare il proprio dovere. Attorno a questo, lui vive il suo “esilio” al Feudo perché sa che attraverso il suo dovere aiuta la sua famiglia e aiuta sé stesso. Lo stesso senso del dovere che lo porta intrepido sui campi di battagli, su e giù per le trincee, negli ospedaletti a cercare di salvare più vite possibili. Questo profondissimo senso del dovere lo sente quasi con vestito che il destino, la sorte gli hanno fatto indossare. E non si lamenta, semplicemente vive la sua vita. Se ci pensiamo bene, la sua è una storia semplice, la storia di quasi tutta l’umanità, la storia di chi ogni giorno si alza e sa che per portare a termine la giornata deve impegnarsi, deve fare del proprio meglio. Questo senso del dovere all’atto pratico si traduce in una sorta di cieca obbedienza che non gli concede mai la possibilità di scegliere. Durante la guerra, di fronte ad una possibilità di scelta per sé stesso lui prova un profondo senso di disagio così come si piò leggere nel paragrafo “lotta continua”.  Ecco cosa risponde al colonnello Ferraguto: “Dottore, lei così mi mette in difficoltà. Da un lato la curiosità di un qualcosa di nuovo dove sicuramente posso imparare tanto. Dall’altro il timore di non esserne all’altezza e il rimpianto per ciò che facevo prima dove ormai avevo fatto tanta esperienza. Ma non è solo questo. Fino ad adesso mi hanno sempre ordinato di fare ed io ho fatto. E questo non solo qui, sotto le armi, anche quando vivevo al Feudo e lei questo dovrebbe saperlo. Non ho mai avuto nessuna possibilità di scelta. Adesso lei mi chiede di scegliere, se rimanere qui o tornare indietro. Penso sia la prima volta che mi capita nella mia vita di dover decidere qualcosa per me, qualcosa del mio futuro”. La vita dopo la guerra è il lento e continuo cammino verso la consapevolezza che il fare il proprio senso del dovere non preclude la possibilità di scegliere e di scegliere anche controcorrente. Nel paragrafo “due occhi bellissimi” se Francesco in quelli di Teresa riconosce non ciò che lei fa, ma la donna che è, lei, nei suoi, riconosce l’uomo libero capace di gesti importanti nel difendere ciò a cui crede. E quando la sorella lo critica per la storia d’amore che sta vivendo con Teresa lui, nel paragrafo “la promessa” così le risponde: “Di rinunce in vita mia ne ho fatte tante. Adesso non voglio rinunciare a tutto ciò che da giovane mi fu vietato. Voglio essere libero di essere me stesso senza dover rendere conto a qualcuno. Tutto questo, ora, me lo posso permettere e mai nessuno potrà togliermi questa libertà”. Questo, come ciò che succederà dopo e come ciò che era successo prima non è una rivalsa nella vita di Francesco ma è semplicemente la maturazione di un uomo che attraverso lo sguardo di una donna e il suo amore riesce a risolvere sé stesso. Analogamente sarà per Teresa.

La Sicilia sembra essere un personaggio in sé nel tuo libro, con la sua cultura ricca e le sue tradizioni profonde. Come hai lavorato per rendere la tua rappresentazione dell’isola autentica e coinvolgente per i lettori?

Ho iniziato a rispondere a queste domande all’insegna di una parola: sogno. A questa devo aggiungerne un’altra: radici. Sogno e radici sono le parole chiave di ciò che mi ha aiutato a scrivere il romanzo. Nel lontano 2001 dalla Sicilia mi trasferivo in Friuli. Una scelta per amore qualcuno ha detto. Si, la mia futura moglie viveva lì e dopo sei anni di rapporto a distanza era necessario che qualcuno facesse un passo avanti. Questo qualcuno sono stato io e l’ho fatto con la convinzione di chi partiva per non tornare più se non per sporadiche vacanze. Il Friuli mi sono sposato e sono diventato padre di due figli. E la Sicilia? Il mio essere siciliano e la mia appartenenza all’isola sono qualcosa di forte e radicato in me da essere quasi essenziali alla mia stessa persona. Lo scorrere del tempo e la lontananza, però, hanno in qualche modo nascosto in me questa mia essenza lasciandomene consapevolezza solo di tanto in tanto. E così, ad un certo punto, ho sentito fortissimo, quasi come un bisogno primario, quello di ritrovare in me stesso le mie radici, quello di riviverle costantemente nel mio quotidiano. Il barone di Palagonia nasce dunque come un sogno da realizzare e come un modo di rivivere le mie radici e di ancorarmi forte ad esse. Due terzi del libro è ambientato nella Sicilia Orientale. Per le vicende relative a 1938 l’ambientazione si fa puntuale nella mia città d’origine Augusta. La grande guerra invece è ambientata nei suoi luoghi, ossia il triveneto. Ritengo però, la Sicilia, non un personaggio bensì un contenitore di forma e sostanza. Come ho detto prima., la prima stesura del libro è stata fatta a penna ed ho riempito ben ventotto quaderni. Questi ventotto quaderni sono stati scritti con una fortissima contaminazione di lingua siciliana. Il pensare il libro nella mia lingua familiare, è stato un modo per meglio calarmi nella storia e assolutamente per farmi rivivere con maggiori emozioni quelle radici ritrovate. Nella prima revisione che ho fatto, vale a dire il copiare un tot alla volta in un PC, ho ridotto la parlata siciliana, vuoi perché oramai avevo ottenuto il risultato sperato, vuoi perché adesso c’era la necessità di rendere più comprensibile il tutto. La mia editor, Antonella Saja, mi disse che avevo fatto come il Manzoni ossia avevo lavato nell’Arno il mio romanzo.  La lingua usata, dunque, dà la forma al racconto, da forza, vigore ed energia all’intera storia, aiutando il lettore a sentire fin dalle prime pagine l’odore e il sapore della Sicilia. Il resto è sostanza. Perché, se è vero che amore, amicizia, senso del dovere, lealtà e così via sono valori universali che si possono trovare e vivere a qualsiasi latitudine, l’ambientazione in Sicilia, rende unica e tipica la narrazione perché ne delinea delle caratteristiche proprie di quella terra. Ed allora una taliata, una stretta di mano, un togliersi il cappello, una parola detta o l’esatto contrario assumono una valenza tipica di un popolo e di una regione non trovabili altrove. A riguardo mi piace ricordare la recensione al libro che mi fece la prof. Tiziana Vitanza al momento della mia prima presentazione: “Un romanzo di storia siciliana…quelli che non vorresti finire, per non lasciarlo. Appassionante, coinvolgente, ricchissimo di particolari, di storie, di avventure. Ti fa immergere in un altro mondo, ti trasmette una prospettiva storica: indimenticabile. Scrittura importante, che riesce a catturare immediatamente il lettore catapultandolo nel mezzo degli avvenimenti… forte di una lingua che, con alcune concessioni alla lingua siciliana, risulta coinvolgente, dotata di vigore e di energia”.

Infine, vorremmo sapere se hai qualche aneddoto o curiosità da condividere sul processo di scrittura di “Il barone di Palagonia”. Ci sono stati momenti particolarmente significativi che hai vissuto durante la creazione di questo lavoro?

Se dovessi raccontare tutti gli aneddoti legati alla scrittura del Il barone di Palagonia, credo che dovrei farne un’appendice di almeno un paio di centinaia di pagine. Tanti sono stati gli accadimenti reali o psicologici che mi hanno coinvolto tanto nel periodo di scrittura, quanto in quello post-scrittura. Due però, meritano di essere citati.

Dopo otto mesi, che avevo iniziato a scrivere, sono stato costretto ad un’operazione. Sapevo che la convalescenza sarebbe stata lunga e che ne avrei approfittato per scrivere il più possibile. Tornato dall’ospedale i medici, almeno per la prima settimana, mi consigliarono caldamente di stare sempre a letto con il piede operato alzato. Come faccio a scrivere mi chiesi? Quaderno alla mano provo con il tavolino da colazione a letto. Niente da fare. Troppo scomodo da fare in un letto non ospedaliero. Forte senso di frustrazione. Che fare? Il cellulare ha word ed allora mi dico: perché non provare a usarlo? Bene, una parte dell’ultimo capitolo del Feudo l’ho scritta appunto usando il cellulare. I primi due giorni quasi bene, il terzo giorno, dopo un paio d’ore inizio ad avere forte prurito alle mani. Imperterrito vado avanti. A metà pomeriggio mi trovo le mani gonfie come zampogne. Le dita sembrano salsicce toscane, il mignolo è diventato quasi come un pollice. Sono molto preoccupato. Potrebbe essere effetto della posizione al letto o dopo aver letto i bugiardini anche effetto collaterale dei medicinali. Che disdetta, adesso che avevo preso il ritmo. Chiamo il medico di base. Viene mi visita. Problema di circolazione. Cosa può essere? Candidamente le dico che ho bisogno delle mani perché mi servono per scrivere al cellulare il libro. La dottoressa mi guarda storto, mi rimprovera dicendomi che, se smetto di usare il telefonino in quel modo le mani mi ritornano normali. E così è stato! Deluso mi toccò aspettare di poter stare seduto per poter riprendere la mia scrittura. Nei cinque mesi di convalescenza ho finito di scrivere la prima parte e scritto tutta la seconda.

Nello scrivere il canovaccio del libro una cosa mi era ben chiara: il libro non avrebbe avuto un lieto fine. La mia idea era quella di una fine sporca, fitusa, per dirla come nel Barone, una di quelle che ti lascia l’amaro in bocca che ti lascia dire: ma come, così è finito? Dopo più di ottocento pagine che hai parteggiato per il personaggio principale ecco che fa una fine brutta. Questa idea si è fatta sempre più forte in me man mano che il libro prendeva corpo. La fine del romanzo, seppur non l’avessi scritta, sapevo bene come farla; dovevo pian piano arrivare a quel punto lì. Quando mancavano due capitoli a finire, che dovevo iniziare a chiudere i vari cerchi per arrivare al punto dove volevo, ho avuto un incredibile blocco di scrittura. Non c’era verso di andare avanti. E non solo non riuscivo a mettere giù due parole di fila, non riuscivo neppure a trovare i giusti pensieri per farlo. Zero! Mi è stato subito chiaro che il motivo era legato ai personaggi del libro. Di punto in bianco, capito le mie stronze intenzioni, ecco che hanno preso a scioperare. Il motivo mi è stato ben chiaro: loro non volevano assolutamente quella fine carogna. Nessuno, dico nessuno, anche quelli che di quella fine ne avrebbero beneficiato in quel mese è venuto a trovarmi. Come faccio? Il problema era serio. Avevo fatto una scommessa con me stesso, vale a dire finire il libro prima dei cinquant’anni. Il due luglio si avvicinava ed io ero fermo. Così una mattina, nel mio tragitto per andare al lavoro cerco di contrattare con i personaggi. L’idea era quella di finire come volevo io ma, di aggiungere un capitolo successivo, che in qualche modo avrebbe dovuto farmi riparare il torto che stavo facendo a Francesco e compagni. Quel capitolo in più avrebbe dovuto chiamarsi Liberazione perché ambientato a ridosso del 25 aprile del 1945. Terminato di pensarlo, appuntato un veloce canovaccio, ecco che improvvisamente i personaggi tornano a visitarmi e a sollecitarmi la scrittura. Ero felice, felicissimo, orgoglioso della decisione che avevamo preso insieme. Ma, c’è un ma. Così non è andata. La mattina del 5 giugno inizio a scrivere l’ultimo capitolo. Fa caldo, si lavora male ma, il tempo stringe e il 2 luglio è vicino. Mai come in quella giornata ho avuto la sensazione di essere uno spettatore di un qualcosa che stava avvenendo attorno a me. Vedevo Francesco, vedevo Teresa, vedevo gli altri protagonisti e scrivevo. Non più scrittore ma cronista. Fatta una sosta prima di mezzogiorno ho avuto ben chiaro che loro mi stavano portando ad un finale che non era quello concordato. Improvvisamente a metà pomeriggio, un personaggio minore assume una posizione di primo piano e spariglia tutto. Ho capito dove vogliono arrivare e sono curioso e al tempo stesso voglioso di arrivarci prima possibile. La pausa della cena dura il tempo di un toast e una frutta. Poi ci siamo, saranno due ore tirate che mi faranno scrivere l’ultima parola. Me l’avevano fatta, mi avevano ingannato, ma avevo finito il libro, il sogno di ragazzo l’avevo realizzato, il proposito di finirlo entro i cinquant’anni pure. Ho pianto di gioia come non mi succedeva da tanto tempo.

Grazie mille, Giuseppe, per aver condiviso con noi il tuo tempo e la tua visione. “Il barone di Palagonia” è veramente un’opera straordinaria che ci ha arricchito profondamente. Non vediamo l’ora di leggere i tuoi prossimi lavori e di continuare a essere trasportati dalle tue storie coinvolgenti. Buona fortuna e continua a illuminare il mondo con la tua scrittura!

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