Benvenuti al blog del Gruppo Albatros, dove oggi abbiamo il piacere di intervistare Iside Lay, autrice del libro intrigante e profondo “Io che non so chi sei”. Questo breve ma intenso romanzo ci porta attraverso due storie di vita che si intrecciano in tempi e realtà diverse, emergendo il concetto fondamentale di giustizia riparativa.
Il tema della giustizia riparativa è centrale nel tuo romanzo. Cosa ti ha spinto a esplorare questo concetto così profondo e complesso?
Ho scritto questo libro, dopo aver scritto la tesi di laurea sulla giustizia Riparativa, in particolare sul caso di Tempio Pausania, il mio paese di nascita, che è diventata la prima città riparativa d’Italia. Questo perché nel 2013 si decise di aprire a Nuchis (un piccolo paese a 3km da Tempio), un carcere di massima sicurezza destinato ad accogliere detenuti legati alla mafia, molti dei quali a 41bis. All’interno della comunità si verificò un conflitto sociale, poiché nessuno voleva questo carcere. A questo punto l’università di Sassari in accordo con l’amministrazione comunale e con la direzione del carcere decisero di portare avanti un progetto di giustizia riparativa, permettendo la creazione di diversi seminari e conferenze riparative, ad alcune delle quali ho partecipato anche io. Il fine di tutto questo fu quello di sensibilizzare e coinvolgere nelle pratiche riparative la maggior parte degli individui, connettendo il mondo interno del carcere con quello esterno, di poter percepire il carcere non più isolato dalla comunità ma come una rete di persone e relazioni che potrebbe crearsi, tra detenuti, operatori, liberi cittadine e professionisti esterni. Partecipare alle conferenze riparative, delle vere e proprie riunioni alle quali partecipavano sia i detenuti che persone esterne, ma anche gli educatori del carcere e le guardie, in cui si ascoltavano le loro storie, ha fatto sì che mi legassi molto a questo argomento, e che cambiassi idea su tante cose…
Nel tuo libro, si nota una forte enfasi sull’importanza dell’educazione come processo di trasmissione culturale. Come vedi il ruolo dell’educazione nel promuovere una cultura della giustizia riparativa nella società contemporanea?
Il mio pensiero riguardo l’educazione come processo culturale è centrale nel libro per diversi motivi. Innanzitutto, dopo aver ascoltato le storie di diversi detenuti sono arrivata alla conclusione che, spesso, chi si ritrova a condurre una vita di devianza criminale non ha ricevuto un’educazione adeguata, o addirittura non ne ha mai ricevuta una. La sola “educazione “che hanno conosciuto è quella data da persone che gli hanno insegnato a delinquere, a farsi giustizia da soli e a pensare di non avere una possibilità e un posto nel mondo. Un’altra cosa molto importante, secondo me, è che la giustizia riparativa debba diventare parte integrante dei processi educativi dei bambini, inserirla e spiegarla nelle scuole, ma non solo in modo teorico, ma soprattutto pratico, partendo dal furto di una gomma o da una spinta per un litigio. Insegnare ai bambini un concetto che si sta forse perdendo, quello di sentirsi parte di una comunità, a partire dalla famiglia e dalla scuola.
Le tue narrazioni, attraverso personaggi e contesti differenti, offrono una prospettiva unica sulla relazione tra vittima e autore di reato. Nel tuo romanzo, le storie dei personaggi si intrecciano in modo intricato, portando alla luce la complessità delle relazioni umane. Come hai affrontato la sfida di creare questi legami tra i personaggi e quali lezioni hai tratto da questa esperienza narrativa?
Per scrivere il mio romanzo sono partita da personaggi esistenti, ai quali ho stravolto e modificato largamente la vita, per poi inventarne altri di contorno, utilizzando la fantasia e anche le conoscenze che ho acquisito nel mio percorso all’interno delle conferenze riparative. Credo infatti di aver raccontato con gli occhi di un solo personaggio, le storie e le caratteristiche di diverse persone che ho ascoltato con interesse. Scrivere questo romanzo mi ha insegnato tanto, mi ha portato a riflettere sui giudizi che spesso diamo a chi si trova in prigione, sulla leggerezza con la quale parliamo di loro, senza conoscerne le storie, i perché, senza sapere da dove vengono e cosa hanno vissuto. Mi ha insegnato anche ad apprezzare ancora di più Napoli ma soprattutto l’allegria, la furbizia, l’intelligenza e la simpatia dei suoi abitanti, spesso mal visti e giudicati. Ma soprattutto mi ha ricordato quanto la verità, nei rapporti umani, alle volte abbia diverse facce e non si può mai sapere quale sia la cosa giusta da fare.
Hai sottolineato l’importanza di costruire modelli culturali e di pensiero volti al rispetto, alla responsabilità e all’inclusione. Quali sfide pensi che la società debba affrontare per abbracciare appieno questo approccio?
Penso che la cosa più importante che si debba iniziare a fare nel nostro paese sia proprio quella di smetterla di vedere il carcere come un’entità esterna, lontana, e di iniziare a percepirlo parte della comunità. In che modo? Come ho detto prima la comunità di Tempio Pausania ha partecipato attivamente alla creazione di una città riparativa, il consiglio comunale svoltosi all’interno del carcere, così come i vari corsi tenuti da associazioni del luogo, teatro, scrittura, sport. Penso che bisognerebbe accogliere i detenuti che hanno scontato la pena all’interno della comunità con progetti di studio e lavoro, non lasciarli soli. Credo ci sia bisogno di un vero e proprio cambiamento culturale perché capisco che non è semplice concepire questo modo di vivere un carcere. Siamo abituati, proprio per cultura a concepire sempre e comunque un cattivo che va punito, spesso senza conoscere niente dell’individuo e della sua vita, il pensiero primitivo della vendetta…non sempre è così semplice. Vorrei citare una frase che mi rimase impressa in una conferenza riparativa, la disse un professore inglese che per anni ha avuto a che fare con i terroristi dell’IRA in Irlanda. Lui ci disse che dopo un lungo percorso con loro, arrivò alla conclusione che quelle erano persone buone, che avevano si commesso azioni cattive, ma erano pur sempre persone buone. Penso che questa frase racchiuda il senso più profondo che la giustizia riparativa esprime, dietro ogni individuo che compie un reato, qualunque esso sia, esiste una persona, una madre, un padre, un amico, una figlia, esseri umani che possiedono sentimenti virtù paure e che di conseguenza agiscono in base a malesseri incomprensioni e pregiudizi.
Qual è il messaggio principale che vorresti che i lettori portassero con sé dopo aver letto “Io che non so chi sei”?
Io stessa quando conobbi per la prima volta la GR pensai: è utopia! Poi studiando, ascoltando e vedendo con i miei occhi cosa si potrebbe creare se si provasse ad accettare questo sistema come metodo, ho iniziato a cogliere il segreto, che è uno solo, non giudicare. C’è tanto bisogno di ascoltare, di cercare di capire cosa c’è dietro, di guardare oltre.” Io che non so chi sei” è un romanzo che non ha la pretesa di spiegare la giustizia riparativa, ha solo la speranza di far sì che le persone ne rimangano incuriosite, che provino ad accettarla come possibilità. Dalle esperienze che ho ascoltato, ho capito che è importante sia per la vittima che per chi ha commesso il reato, parlarsi, confrontarsi, alle volte anche solo chiedere scusa o ricevere delle scuse, provare a spiegare i propri sentimenti, liberare il cuore dalle cose che si vorrebbero dire alle persone a cui si è fatto del male o viceversa. Ho sempre pensato fosse un concetto difficile da accettare ma spero che se ne parli sempre di più nel modo giusto. Questo era il mio scopo, questo vorrei che accadesse nel mio paese. La lettura di “Io che non so chi sei” ci spinge a riflettere su concetti fondamentali come la giustizia riparativa e l’importanza dell’educazione nella costruzione di una società più inclusiva e rispettosa.
Ringraziamo Iside Lay per aver condiviso con noi la sua visione e i suoi pensieri illuminanti. Continuiamo ad aprirci alle diverse prospettive e ad imparare dagli altri, perché, come ci insegna Iside Lay, ogni aspetto dell’altro ci fa conoscere noi stessi.
