GRUPPO ALBATROS IL FILO PRESENTA: I RECINTI DELL’INDIFFERENZA – Melo La Licata

Benvenuti lettori del blog del Gruppo Albatros! Oggi siamo felici di avere con noi un autore che ha scritto opere capaci di toccare le corde più profonde dell’animo umano. Il suo libro, “I Recinti dell’Indifferenza”, è molto più di una semplice raccolta di poesie. È un viaggio emozionante attraverso i labirinti dell’esistenza, un’esplorazione delle divisioni e delle contraddizioni che definiscono il nostro mondo. Con uno stile poetico accattivante e una sensibilità straordinaria, l’autore ci conduce attraverso un percorso che ci obbliga a riflettere sulle barriere che erigiamo intorno a noi stessi e agli altri.

Il suo libro, “I Recinti dell’Indifferenza”, tratta tematiche molto profonde e universali. Cosa l’ha ispirata a scrivere su questi argomenti così intimi e complessi?

L’impotenza, la paralisi. Alcune disavventure mi hanno portato ad incontrare lo STATO, quello che ti manda gli avvisi per posta. Di questi tempi il servizio postale è solo per le cattive notizie, bollette, avvisi e multe, richieste onerose di ogni genere sino ad averne paura di quel foglietto che sporge dalla feritoia della cassetta, minaccioso come un moschetto ad avancarica; di quel postino in livrea gialla, vistosissima, catarifrangente, come un segnale di pericolo, come una boa che segnala lo scoglio.  Lo STATO è un organismo costituito da strutture organizzative più o meno complesse che si chiamano BUROCRAZIA come noi di cellule. Il concetto di Stato è alto e fa parte dei migliori sentimenti che un uomo possa esprimere, li sintetizzava bene Cicerone, ma il suo risvolto organizzativo si è basato su un modello centralizzante (modello organizzativo animale) fondato sul controllo, i moduli, gli algoritmi nei quali non trova spazio la “pietas” che dovrebbe essere alla base di ogni relazione Stato-Cittadino. Alzi la mano chi ha ricevuto anche una sola buona notizia dallo stato. È allarmante, nessuno! La struttura organizzativa non resta inerte ed ubidiente a lungo e presto prende il sopravvento sulla parte decisionale sino ad arginarne gli slanci e mortificarne i programmi, si riproduce, procede lenta, terribile, sorda, con l’orrenda stupidità che solo la burocrazia è capace di attuare. E la giustizia, quando è svuotata di pietà ed intelligenza, non è la più temibile delle burocrazie? Chi ne resta sconfitto visita le carceri e precipita nel passato remoto. In questi luoghi la burocrazia è un essere grasso e sorridente che macina anime, per prime, quelle che l’accudiscono avendo pensato meglio, avendo sperato meglio della loro vita nello Stato. Li incontravo tutti i giorni, sul loro lavoro, per i corridoi e sui loro visi se ne leggeva la delusione che presto diveniva presagio di squallore e geenna per i sorvegliati. Questo è il volto dello stato che io ho conosciuto e mi sono difeso come ho potuto, con un canto di resistenza, poiché la poesia è l’arma degl’impotenti, degli incatenati, di chi non può agire (come, invece, chi avanza e marcia scrive canzoni) e finisce con il sostituire la penna al coltello; sputa invettive sperando che risultino infette; grida un allarme, un avvertimento, un avviso come solo chi è stato privato di tutto, ma non ancora dalla voce, può fare. 

Nelle sue poesie, emerge una grande capacità di esprimere le emozioni umane in modo tangibile e potente. Qual è il suo processo creativo quando si tratta di tradurre sentimenti così complessi in parole?

Certe volte si cerca uno stato di allarme, (in galera lo stato d’allarme cercava te). L’anima si sporge fuori, come dalla finestra di un grattacielo, produce adrenalina che moltiplica le percezioni tanto da avere l’impressione di vedere le cose da una rinnovata prospettiva. La ricerca dell’effetto louche che intorbidisce i pensieri ed esalta le percezioni. Gli impressionisti e i “maledetti” lo trovavano nell’assenzio mischiato al laudano, l’LSD delle rock star. Da ragazzo (e non solo) ho amato i classici, l’Iliade e l’Odissea; la prima nella traduzione del Monti “cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta…”. Avevo un professore che ce li spiegava in siciliano, quasi una Opera dei Pupi mutuata dalla “chanson de geste” per poi declamare i passaggi epici o toccanti, le risoluzioni o gli allarmi a voce spiegata e chiara e gli mancava solo di salire sui tavoli come Robin Williams nel famoso film. Poi altri autori dal Tasso a Leopardi e Foscolo e saltando a piè pari i pretestuosi e tronfi Futuristi, Neruda nell’ultima invettiva “iene voraci – della nostra storia, roditori – delle bandiere conquistate – con tanto sangue e tanto fuoco” e Pavese nel suo commiato “verrà la morte…”. Ancora quelle opere mi suonano dentro e quando scrivo cerco di pormi sulla loro scia e penso cosa vorrei sentire da Quelli su queste cose. Il risultato è evidentemente deludente, ma non penso se l’abbiano a male ed il tempo gioca dalla mia parte. Se non altro io sono ancora vivo. 

Una delle cose più affascinanti del suo lavoro è la capacità di trasformare la natura in un vero e proprio specchio dell’animo umano. Come è nata questa connessione tra natura e emotività nelle sue poesie?

Ci sono dei tramonti infocati, nembo-cumuli di imponente bambagia, venti che sradicano alberi secolari, ed elementi morbidi come l’acqua che riescono ad impressionarci con la loro sostanziale potenza, anche immaginifica. Chi ha vissuto la natura in attività all’aperto li ha conosciuti, su una barca a vela o sotto l’arco di un parapendio, è stato costretto a rispettarli, ne ha avuto paura e ha finito col trarne l’idea di DIO, senza, si cadrebbe nella più potente disperazione. Si vivrebbe nella più esasperante provvisorietà. Ma questo è il punto, dobbiamo accettare che siamo in costante stato di provvisorietà. Il mare scava i promontori e questi ci franano sopra per ricacciarlo indietro, vincerà chi ha più retrovia e sarà stata una vittoria di Pirro, una situazione provvisoria poiché le placche spingono e generano nuovi promontori che torneranno ad essere spianati dagli elementi ed anche tutto questo ci da un profondo senso di provvisorietà. Solo gli uomini credono di avere il senso del “finito”, come completato credo solo al fine di numerare per monetizzare. “Ho finito un quadro”, “…una scultura”, quando la natura ti offre milioni di paesaggi in continuo cambiamento, che si modificano mentre ancora li stai guardando; ho finito di mangiare (per qualche ora) ecc. nulla finisce con l’essere pronto nel senso di assumere uno stato definitivo, ma tutto è in movimento, tutto cambia. Non vi è differenza tra le cose di terra, quelle d’aria o quelle di mare al punto che i popoli animisti consideravano possibile l’unione tra diversi elementi e cose ed animali, unioni carnali, interazioni fisiche, alleanze e scontri, dopotutto Issione (il centauro) amava Nefele (la nube). Poi, forse, mangiato il frutto della conoscenza del bene e del male la consapevolezza ha scacciato l’innocenza e tutto quello che abbiamo fatto dopo, è diventato torbido, sporco, brutto e violento e insufficiente e deludente rendendoci una specie a se stante, non migliore ma distaccata e distante dalla ns natura. Tra noi e la natura e la nostra natura c’è solo l’EDUCAZIONE e il rumore del mondo, l’arroganza e le stragi che si porta dietro. Quando tuona, piove, fa caldo mi chiedo come avrei potuto viverli, come mi sarebbe parso, e talvolta mi pare di sentirlo quando mi verso su un prato a riposare o attraverso un folto bosco o nuoto in uno specchio d’acqua o assaporo una bacca edule. 

Nel suo libro, si parla di muri dell’odio eretti dagli esseri umani. Come pensa che la poesia possa contribuire a abbattere queste barriere e promuovere l’empatia e la comprensione reciproca?

Quello che avviene a Gaza forse è proprio una sintesi di quel che vorrei raccontare. La brutalità nazista nel Ghetto di Varsavia e dei campi di sterminio è stata fermata dalla storia, popoli (anche complici) hanno innalzato quella memoria sino al punto di santificarla, hanno creato eroi, milioni di tonnellate di libri e scritti e film e documentari e monumenti e una sacralità tanto perfetta da risultare falsa, da diventare sacrilega; il cui peso ha indotto “Gli Eredi” ad emulare gli aguzzini nel Ghetto di Gaza trasformando la Striscia in un campo di sterminio. Prima e dopo ci sono entità distinte Ebrei, Nazisti, Palestinesi, Ucraini, Russi e ci sono dei CONFINI, l’invenzione più devastante per le buone relazioni del genere umano. La distinzione degli uomini per nazionalità è opera di grave superficialità. L’abolizione dei confini di stato e proprietà eliminerebbe l’80% delle violenze che l’uomo esercita sull’uomo. La poesia è solo un momento di riflessione in un mondo che non legge e non riflette. Dopo il Prêt-à-Porter si è fatto strada il Prêt-à-Manger ed oramai pare inevitabile il Prêt-à-Penser la poesia può fare ben poca cosa e con l’avvento dei social il like si dispensa anche dopo la lettura del solo titolo. Scriviamo per noi stessi perché forse abbiamo sperimentato che scrivendo si lasciano sul foglio le peggiori emozioni e si custodiscono i migliori ricordi. Ma credo, soprattutto, che scriviamo poiché davanti a tutto questo siamo assolutamente impotenti come è vero che chi marcia e avanza scrive canzoni. Siamo vecchie macchine per vecchi avvenimenti. I giovani, affronteranno il loro tempo, spero, meglio di quanto abbiamo creduto di fare noi, e alcuni avranno nel bagaglio la poesia, come è sempre stato. 

Infine, quali messaggi spera che i lettori traggano dalle sue poesie? C’è un’idea o un concetto che spera che emerga in modo particolarmente forte dalla lettura di “I Recinti dell’Indifferenza”?

La mia estrazione è stata cristiana e poi marxista; due idee che perseguivano un mondo di giustizia e inclusione e che differivano essenzialmente nel metodo da utilizzare per raggiungere questi obiettivi: la prima si affidava alla forza dell’amore; la seconda all’azione anche con le armi per la semplice considerazione che chi detiene il potere non ha alcuna intenzione di rinunciarvi e certamente passerà alle vie di fatto al solo delinearsi delle prime richieste. Oggi chi detiene il potere esercita un controllo come non abbiamo mai neppure immaginato e con l’aiuto dell’AI non ci sarà più scampo per coloro che non hanno alcun potere. Non avere potere ha assunto un nuovo significato, significa avere o non avere una utilità nella nuova visione del mondo. Ci saranno essenzialmente tre classi sociali: 1) i detentori della ricchezza mondiale (1,5% circa della popolazione mondiale); 2) i manager, i tecnici, personale sanitario e militare e gli addetti ai servizi (il 25% circa della popolazione mondiale con l’ausilio massiccio di tecnologie labour saving); 3) tutti gli altri che economisti illuminati come Rifkin e Stiglitz hanno individuato quali fortunati percettori di un reddito universale congruo al punto da costituire una società dedita alla cultura (elevato livello di scolarità, grande diffusione di teatro ed arte) e al volontariato (gli uffici pubblici saranno in gran parte gestiti da cittadini in servizio volontario) cioè il 73,5% della società, divenuti sostanzialmente inutili, esisteranno esclusivamente per intercessione di quel 26,5%. Per la terza categoria, dal momento che non sono necessari al fattore produttivo, e occupano spazio e bruciano risorse e sporcano, si aprono i seguenti scenari: a) la tecnologia ci porta su nuovi mondi e invieremo grosse fette di popolazione per colonizzare (ben venga il sovrannumero); b) prevalgono le ideologie sociali e si crea una società ricca e felice come quella auspicata da Rifkin e Stiglitz; c) prevalgono le ideologie anti-sociali e si determina una società da “1984” di Orwell nella prima fase ma che potrà metter in atto azioni tali da fare impallidire i peggiori complottisti, in una seconda fase. C’è comunque una magra/straordinaria consolazione: i popoli come gli Yanomami, i jarawa, i Boscimani e gli Ugro e tutti gli avanzi di preistoria ancora esistenti godranno di una protezione mai sperimentata poiché saranno parte dei parchi antropologico-biologico-faunistico-botanici che quel 26,5% vorrà visitare intatto. Io spero che la mia poesia possa dare un piccolo aiuto ad “Invertire la rotta” come scrive Joseph E. Stiglitz nonostante la triste prospettiva che, molto probabilmente, il “ns sangue” farà parte di un distaccamento coloniario in un remoto angolo della galassia per sterminare dei Sioux-alieni al canto di Shall We Gather at the river. A quel punto non ci resta che pregare affinché il “nostro sangue” resti vigile per non macchiarsi le mani con azioni atroci. E nel peggiore dei casi Io spero che la mia poesia possa abituare a cercare il vero in tutte le cose dal momento che una “brutta verità è sempre meglio di una bella bugia. Ma non capisco come potrà avvenire.

Grazie mille, Melo La Licata, per aver condiviso con noi la sua visione e il suo mondo poetico così ricco di significati attraverso “I Recinti dell’Indifferenza”. Le sue parole ci hanno ispirato e ci hanno fatto riflettere su molte questioni importanti. Non vediamo l’ora di leggere ancora le sue opere nel futuro.

Lascia un commento