Benvenuti lettori del blog del Gruppo Albatros, oggi siamo felici di avere con noi un autore il cui libro, “Un ponte sull’abisso”, ci immerge nelle profondità e nelle complessità di un mondo spesso sconosciuto e misconosciuto: Paolo Toscano. Con uno sguardo acuto e penetrante, Toscano ci porta a camminare lungo i sentieri pericolosi della ‘ndrangheta, attraverso i passi di Don Ciccio Serrano e la sua discendenza.
Il tuo libro offre uno sguardo crudo e autentico sulla realtà della ‘ndrangheta. Cosa ti ha spinto a scrivere su questo tema così controverso?
Sono un giornalista che è nato, è cresciuto e ha sempre lavorato in una terra complicata come la Calabria. Ho alle spalle una carriera ultratrentennale di cronista al quotidiano Gazzetta del Sud dove ero capo servizio. Mi sono occupato in prevalenza di nera e giudiziaria. Posso tranquillamente affermare che nella vita professionale le vicende di ’ndrangheta sono state il mio pane quotidiano. In età matura, rispolverando una passione giovanile, ho pensato di scrivere un romanzo ispirato dalle conoscenze maturate nel corso della lunga esperienza in campo giornalistico. Così è nata una storia ambientata negli anni Novanta nell’area pre-aspromontana, in un paesino soffocato dall’opprimente presenza di una potente cosca. A darmi la spinta, a motivarmi in un lavoro piuttosto impegnativo ha contribuito la voglia di offrire il mio contributo a una causa importante: far crescere, soprattutto nella componente scettica della società calabrese, la consapevolezza della gravità della situazione e, allo stesso tempo, alimentare la determinazione necessaria a liberarsi dal giogo mafioso. Personalmente sono convinto che non si tratti di una missione impossibile a patto che ci sia un coinvolgimento generale. Pensare che il compito di contrastare la logica mafiosa spetti solo a Magistratura e Forze dell’ordine ha fatto a lungo il gioco dell’antistato. Ritengo che la logica della delega in bianco senza assumersi mai alcuna responsabilità diretta attraverso comportamenti responsabili, debba essere definitivamente messa da parte senza se e senza ma.
Don Ciccio Serrano è un personaggio centrale nel tuo romanzo. Qual è stata la tua fonte di ispirazione per dar vita a un personaggio così complesso?
La storia della ’ndrangheta, ovvero di quella che oggi è considerata l’organizzazione criminale più pericolosa, è ricca di personaggi come don Ciccio Serrano. In ogni quartiere delle città calabrese così come in ogni paese esiste un personaggio magari diverso nelle fattezze fisiche dal protagonista del mio romanzo ma con le stesse caratteristiche comportamentali. Il capobastone di Montebruno è il prototipo dell’appartenente all’onorata società. È un capo indiscusso con potere decisionale su tutti e su tutto. Rappresenta un punto di riferimento guardato con rispetto dalle schiere di associati pronte a osannarlo e a decantarne le lodi in ogni occasione. Vive in un mondo lontano anni luce da un modello civile di società. Un mondo dove si prova eccitazione solo a fregiarsi della definizione di ’ndranghetista. Come ogni boss che si rispetti, don Ciccio si sente pieno, tronfio del suo essere mafioso. Gli viene spontaneo godere della posizione dominante legata essenzialmente al vincolo associativo. Si considera un privilegiato e non esita ad abbinare al suo status la connotazione di uomo valente. Tende a materializzare la figura di un individuo sprezzante del rischio. Una sorta di eroe popolare votato a compiere gesti coraggiosi. Una visione fantasiosa la sua, che non trova riscontri pratici nella realtà e non ha nulla da spartire con le conclusioni di studiosi del calibro di Gerard Rohlfs. Il filologo tedesco alla voce ’ndranghiti, infatti, aveva abbinato il significato di uomo balordo.
“Un ponte sull’abisso” affronta il tema della perpetuazione del potere e della violenza attraverso le generazioni. Credi che ci sia speranza di cambiamento in un ambiente così intriso di tradizione e violenza?
Don Ciccio Serrano ripercorre le orme del nonno continuandone l’opera nefasta. Eredita la posizione al vertice della cosca e perpetua l’esercizio del potere mafioso all’ombra di pratiche basate sulla prevaricazione e sulla sopraffazione. Il capobastone domina la scena attraverso atti violenti, abusi, soprusi, angherie e quanto di peggio possa offrire il genere umano. Il mondo della ’ndrangheta è un mondo gretto e chiuso. Apparentemente impenetrabile. Il vincolo dell’omertà tende a renderlo impermeabile ai tentativi di cambiamento. Nonostante tutto la speranza di riuscire a minare alle fondamenta la struttura criminale rimane in vita. E lo si deve, soprattutto, alle giovani generazioni che continuano a coltivare il sogno di potersi liberare un giorno dal giogo mafioso, di riuscire a trasformare la società rendendola migliore. Nei cuori di tanti ragazzi sono scolpite le parole pronunciate da un uomo straordinario come Giovanni Falcone: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Parole che infondono coraggio e danno la forza per continuare a lottare. Personalmente sono allineato al pensiero del magistrato palermitano. Sfrutto ogni occasione per ribadire il suo concetto sulla natura umana della mafia. E sono convinto che, come tutti i fenomeni umani, ha avuto un inizio e avrà una fine.
Maria, la nipote di Don Ciccio, rappresenta la speranza di cambiamento nel romanzo. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere attraverso il suo personaggio?
Maria è una ragazza normale ma dimostra di possedere valori sani. A differenza delle altre donne della sua famiglia non subisce le lusinghe dei privilegi mafiosi. Giorno dopo giorno è assalita dal dubbio. La sua sete di verità cresce vedendo cadere nel vuoto ogni sua domanda. Non trovare le risposte che cerca le fa male ma non si rassegna. Animata da una grande determinazione la induce a proseguire, a fare anche scelte determinanti. Trova il coraggio di gettare il famoso ponte sull’abisso che dà il titolo al mio romanzo. Quell’abisso che l’avrebbe sicuramente inghiottita se non si fosse determinata a cambiare. Con la sua scelta di andare controcorrente e denunciare, di agire per contrastare la logica che ha fagocitato l’intera sua famiglia, Maria incarna la speranza del riscatto. Diventa il simbolo di una generazione che non vuole rassegnarsi e con tutte le sue forze alimenta il sogno di cambiare il destino della Calabria, di una terra che non può e non deve rimanere bloccata dalle catene di un’antica schiavitù per cominciare finalmente a muoversi sul terreno della legalità, della giustizia, del vivere nel pieno rispetto delle regole.
Qual è stata la parte più difficile da scrivere in “Un ponte sull’abisso”? E quella che ti ha dato maggior soddisfazione?
La parte più difficile è stata sicuramente quella finale. Scrivendo sentivo la responsabilità di chiudere in modo adeguato una storia che, ero convinto, avrebbe appassionato i lettori. Non volevo cadere nel banale o nello scontato. Credo di esserci riuscito. La conferma l’ho avuta dai giudizi di chi quanti hanno letto il mio romanzo. Finora nessuno è rimasto deluso della parte conclusiva. Qualcuno l’ha trovata originale e sorprendente. La parte che mi ha dato maggiore soddisfazione, invece, è quella relativa al cambiamento di Maria. Essere riuscito a descriverne il travaglio interiore che porta la nipote di don Ciccio a compiere i passi decisivi, nel momento più complicato della sua giovane esistenza, non era facile. Bisognava farle assumere le sembianze di un’eroina dei nostri giorni. Un esempio positivo in grado di catturare l’attenzione e stimolare lo spirito di emulazione in tanti coetanei che, in preda a dubbi e perplessità, vagano nei meandri dell’esistenza senza trovare il coraggio delle scelte risolutive.
In “Un ponte sull’abisso”, Paolo Toscano ci spinge a riflettere sul potere, la tradizione e la possibilità di cambiamento in un contesto intricato e pericoloso. Attraverso le parole di Toscano, possiamo intravedere la luce della speranza, anche nei luoghi più oscuri. Grazie, Paolo, per averci accompagnato in questa profonda e coinvolgente esplorazione.
